La politica, o della doppiezza, nel tempo del provvisorio

di Dario D’Italia

Note a margine di una lettura di “Un ribelle in cerca di libertà. Profilo di Palmiro Togliatti” di Luciano Canfora, edizioni Sellerio, e “Dialogo sulla Modernità, lettere tra Karl Lowith e Leo Strauss”, edizioni Donzelli.

Canfora, nel proemio di quello splendido schizzo del profilo di Palmiro Togliatti titolato ‘Un ribelle in cerca di libertà’ inizia con un elogio della “doppiezza” sottolineando, però, che non vuole occuparsi «della banale e troppo a lungo enfatizzata ambiguità strategica a riguardo dell’eventuale ricorso – come ‘carta di riserva’ o  come ‘alternativa’ – alla ‘via rivoluzionaria’ », mai scomparsa del tutto, secondo alcuni critici, della prospettiva togliattiana, nonostante contro tale ‘doppiezza’ Togliatti abbia costantemente polemizzato nel ventennio in cui si dispiegò la sua azione politica in Italia. E aggiunge: «Intendendo invece per ‘doppiezza’ il non avere Togliatti mai dismesso l’orizzonte o per meglio dire la prospettiva socialista, nonostante la straordinaria capacità di aderire alle concrete contingenze dell’hic et nunc politico-parlamentare: una capacità che suscitò, in altri non meno severi critrici ( anch’essi numerosi), l’dea che egli a tale proposito avesse da tempo rinunciato».

Il problema della doppiezza di Togliatti non è se avesse rinunciato ‘alla via rivoluzionaria’, cosa che credo che lui avesse coscientemente fatto, ma il fatto che nel Partito Comunista molti tra i militanti e i dirigenti non l’avessero fatta e ritenessero le posizioni di Togliatti una scelta cinica che negava ciò che voleva affermare. Perché questa ambiguità non si sciolse? Furono solo i legami internazionali e la forma partito del centralismo democratico, o la preoccupazione, che i militanti non capissero, ad impedire che attraverso una discussione libera si rendesse manifesto che l’orizzonte del socialismo non si guadagnasse più con l’imposizione di una ‘dittatura’, ma si iscrivesse in una prospettiva capace di fare i conti con quell’hic et nunc della politica, in ultima analisi della politica nel tempo moderno, nel contesto dato, come sottolinea Canfora?

Da questa prospettiva l’aspetto più interessante, del tratteggio della ’doppiezza’, di cui Canfora giustamente tesse l’elogio – che non nega e ricomprende la prima -, è dato dalla constatazione che «essa è propria di ogni forza politica che non abbia scelto di aderire immobilisticamente all’ordine politico-economico-sociale esistente. Tutte le forze politiche che fanno capo ad un orizzonte ideale praticano la doppiezza: la doppiezza tra il quadro politico-istituzionale entro cui accettano di muoversi e le proprie aspirazioni di fondo». Individuando la “doppiezza” come luogo che si alimenta dell’orizzonte ideale delle proprie aspirazioni e il quadro politico-istituzionale nel quale si accetta di muoversi, l’hinc et nunc politico- parlamentare. Possiamo dire è la condizione moderna dell’agire politico.

Canfora vede nel Togliatti ‘totus politicus’ due possibili livelli della doppiezza, il primo che per sintetica classificazione apparterrebbe a quella che possiamo definire ‘dissimulazione’ e un secondo più propriamente della ‘doppiezza’.  La ‘dissimulazione’ è attività che si svolge nel politico, è parola che tradisce l’intenzione, tutta dentro il terreno della tattica. La ‘doppiezza’ ha una grana teorica più densa, si colloca tra il pensiero, l’orizzonte teorico, e l’azione, l’hinc et nunc della politica.

La politica come possibilità nel moderno

Declinato in questo modo il concetto di ’doppiezza’, come possibilità del darsi dell’azione politica moderna, è proiettato nel contesto definito da Leo Strauss in ’Diritto naturale e Storia’, secondo il quale «qualsiasi principio universale o astratto ha necessariamente un effetto rivoluzionario, inquietante, sconvolgente per il pensiero,  perché costringe gli esseri umani a giudicare l’ordine stabilito, ciò che è attuale qui e ora, alla luce dell’ordine naturale o razionale. E ciò che è attuale qui e ora è più probabile che non sia all’altezza della norma universale e immutabile» (L. Strauss: Diritto naturale e Storia, pag. 13-14). Le idee possono orientare la traiettoria politica e geopolitica di una società. Ma questa impostazione però pone una condizione non secondaria: chi si vota alla ricerca di tali ideali politici deve rinunciare a concretizzarli in prima persona. Così che l’imperativo marxista ‘i filosofi si sono limitati ad interpretare il mondo in modi diversi; si tratta ora di trasformarlo’, viene radicalmente rovesciato. Infatti secondo Strauss, non soltanto ’l’ottimo regime’ può essere fondato solo in ’speach’ ed è praticamente irrealizzabile; un approccio filosofico radicale alla realtà politica concreta è di fatto impossibile, perché quest’ultima è dominio del compromesso, del transitorio, della contingenza storica. La stessa Repubblica di Platone non è il manifesto dell’idealismo politico, non è la descrizione del migliore regime possibile, ma invece delle insuperabili difficoltà per la sua attuazione e pertanto  la sua più netta confutazione. Nel pensiero di Strauss questa dialettica si dà come conflitto irrisolvibile: un sistema filosofico può influenzare la vita politica – e anzi lo fa continuamente – ma solo in maniera indiretta, come ideale regolativo.  

In che modo Strauss cerca di superare questa rottura insanabile tra natura, intesa antropologicamente come ordine e ragione, e forma che in quanto storicamente determinata, è irrimediabilmente artificiale, tra filosofia e politica? Da una parte ricorrendo ’all’imitazione’ – cercando di imparare dagli antichi – «un uomo come Churchill dimostra che la possibilità della ’megalopsychia’ sussista oggi esattamente come nel V° secolo avanti Cristo» (Lettera di Strauss a Lowith del 20 agosto 1946). E dall’altro ad una esplicita teoria del mito politico: «in una società ben ordinata è necessario che uno dica delle non-verità di un certo genere ai bambini e, in qualche caso, anche agli adulti». Solo il mito politico può tentare la pacificazione dei cuori discordi della Polis.

Per Karl Lowith non c’è un preciso punto di rottura della condizione di infondatezza della modernità, essa si manifesta tra l’intelaiatura greco-romano e l’orizzonte ebraico-cristiano, dove il primo è il fondale sul quale è possibile registrare tutte le differenze del ’mondo nuovo’, mentre il secondo ne costituisce il ’veltro’. É dentro questa tensione che la storia si emancipa dalla natura e diventa “pro-gettante” verso un compimento che coincide con il suo significato. É questa nervo sotteso del moderno che collega la teologia della storia (procursus civitate Dei agostiniano) alla filosofia della storia da Voltaire a Marx. Il moderno, per Lowith, non si limita a ripetere il messianismo giudaico-cristiano, ma lo piega ad un esito immanentistico. Tale rovesciamento non solo non cancella la propria radice escatologica ma, proprio rinnegandola, finisce per ’realizzarla’ storicamente: «in conseguenza dell’intuizione cristiana primitiva abbiamo una coscienza storica tanto cristiana nella sua origine quanto anti-cristiana nella sue conseguenze […] dissolve il cristianesimo proprio perché applica i principi cristiani alla cose del mondo» (Lowith, Significato e fine della Storia, Milano, 1963).

La natura che per Strauss è ordine e ragione, per Lowith, sottratta dal suo presupposto umanistico, diventa destino e mistero dal cui sfondo emerge all’esistenza l’uomo, in essa compreso, ma da cui esso fuoriesce. La natura è naturale sia quando permette il crescere e prosperare dell’umano, sia quando lo distrugge. Il mondo non si riduce al complesso delle prospettive umane su di esso. Il mondo non ci appartiene, ma noi apparteniamo ad esso, anche quando, appropriandocene, lo trascendiamo e lo poniamo al nostro servizio. Dentro questa gettatezza dell’umano nel mondo, ogni sua azione è artificio, dal momento che innaturali sono sempre e necessariamente tutte le azioni umane. Avendo l’uomo moderno corrotto o consumato sia l’originaria prospettiva dell’eskaton (Zivilisation), sia il movimento ciclico del katechon (Kultur), e avendo i tentativi decisionisti confermato l’aporia dei temporanei rapporti di forza, la prospettiva lowithiana da una visione cosmico-naturale dell’eterno ritorno contrapposta alla storia, si sposta nella storia stessa, dove questa manifesta un elemento sovra-storico, un’addensamento che trascende. É questo il punto in cui bisogna resistere all’attacco del tempo, che non sta fuori dall’accadere storico, ma insiste in esso. É qui che bisogna stare dentro alla libertà umana, nel mezzo dell’accadere universale. Il compimento del moderno è la soglia di resistenza ultimativa all’invadenza della tradizione storica. Ma ciò che può salvare, la scienza moderna nella sua dimensione planetaria della tecnica, reca con se il rischio mortale, la sua intrinseca potenza nichilista. Stare dentro la libertà dell’uomo in cui la forza dello spirito umano si misura nella conoscenza della sua insufficienza, instabilità, caducità, della nuova ’epoca del provvisorio’.

Nella storia politica moderna la condizione della politica è data come capacità di ‘governo del provvisorio’, dove l’elemento straussiano della ‘megalopsychia’ (gli ottimati che scelgono l’impegno per il bene comune, i “best men” che all’inizio del ‘900 si impegnano per il rinnovamento della politica americana come i Roosevelt; il Giolitti di Togliatti; il Governo di Mario Draghi) e l’ammonimento ‘cerchiamo di imparare dagli antichi’ devono stare dentro l’accadere storico, dentro alla libertà umana che è in grado di afferrare l’elemento sovra-storico – l’orizzonte ideale – e farne soglia di resistenza. 

La “doppiezza” alla prova del nodo del “Cinquantasei”

A seguito di questa affermazione di carattere generale sulla necessità della “doppiezza” nell’azione politica moderna, Canfora ricostruisce la formazione del profilo, tutto politico, nel senso del moderno, di Togliatti. La rottura del primo Novecento dovuta alla guerra degli imperi e la mobilitazione delle masse preclude al movimento socialista la pratica del terreno delle conquiste democratiche. «L’imperialismo produce guerre sempre più gravi e sempre più frequenti, e in tali guerre finisce con il demolire le conquiste democratiche». Insomma «nell’età degli imperialismi e dei conflitti di potenza, la democrazia viene sospesa quando ci si trova di fronte a scelte decisive». A sostegno di questa impostazione sono le riflessioni di Otto Bauer sullo smascheramento della democrazia borghese e le riflessioni di un antifascista non comunista come Silvio Trentin: «Quanto più ripugna l’impostura di cui il grande capitalismo nord-americano ha ricorso metodicamente per coprire di un’apparenza di legittimità il tipo di Stato che esso ha forgiato, […] tanto più seduce il nostro spirito e conquista la nostra simpatia di osservatori inquieti l’idealismo disinteressato che ispira e vivifica il disegno grandioso posto alla base dello Stato comunista». In quella temperie, con la scelta pro-fascista della borghesia europea, capitalismo e democrazia apparivano essersi incamminati su percorsi drammaticamente divaricanti. Qui Canfora cita a sostegno della sua tesi il suo lavoro (Togliatti e i dilemmi della politica, Laterza 1989, cap III), sull’accostamento fatto da Trentin tra la Ginevra di Calvino e la Mosca di Stalin. In questo passaggio non è possibile non notare appunto quell’elemento dell’intransigenza, della mancanza di ‘misura’, che sottrae la politica dalla possibilità – quale governo della comunità-  della dinamica del presente, del qui e ora, della vita e degli interessi, per gettarla nella necessità dell’esito.

All’interno di questa prospettiva messianica e divaricante Canfora cerca di cogliere il formarsi dei tratti della “doppiezza” propulsiva del Togliatti politico. Con la Guerra civile spagnola il movimento comunista si trova ad un primo aut-aut. La lettera di Stalin a Caballero, del 21 dicembre del 1936, pone in modo dirompente sia un problema teorico-politico, sia una questione geopolitica: «La rivoluzione spagnola si apre strade che, per molti aspetti, differiscono dalla strada percorsa dalla Russia. Ciò è determinato dalle differenze di ordine sociale, storico e geografico, dalle esigenze della situazione internazionale, diverse da quelle che si posero dinanzi alla Rivoluzione in Russia. É possibile che la via parlamentare risulti un processo di sviluppo rivoluzionario più efficace in Ispagna di quanto non lo fu in Russia. […] Ciò è anche necessario per impedire che i nemici della Spagna vedano in essa una repubblica comunista, e per prevenire, così, un loro intervento dichiarato, che costituisce il pericolo più grande per la Spagna repubblicana». Anche se alcuni storici credono di poter rintracciare in questa lettera un’ipotesi di via parlamentare al comunismo, già fatta propria da Stalin alla fine del 1936. Altro che Chruschev nel 1956. Credo che realisticamente, questa lettera vada inquadrata nel contesto geopolitico del tempo. Infatti, a ben guardare, quello che Stalin chiede a Caballero di evitare che: «I nemici della Spagna vedano in essa una repubblica comunista!». É evidente la preoccupazione di Stalin di tentare di sgretolare la posizione di non intervento di Francia e Inghilterra. Mi pare che qui prevalga una preoccupazione geopolitica più che una adattamento teorico politico della prospettiva democratico parlamentare del comunismo; che questa posizione di Stalin, e gli esiti della Guerra Civile spagnola, serviranno successivamente a Togliatti per riflettere sulle “vie nazionali” attraverso le quali si attua la possibilità di istaurare il nuovo ordine politico. Stando alla questione, credo che Stalin si muovesse nell’ambito di una geopolitica di potenza abbastanza collaudata, come dimostreranno i successivi sviluppi, senza eccessive preoccupazioni per le questioni teorico-politiche. A mio avviso ci muoviamo nell’ambito dell’accorta gestione tattico-politica della grande dissimulazione.

Sempre secondo Canfora, già dal marzo 1944, Togliatti ammaestrato dall’esito della Guerra di Spagna e dai “fronti popolari” è ormai pronto a sperimentare la via nazionale e parlamentare, ma anche qui si sovrappongono i piani. Nella svolta di Salerno è prioritario l’interesse geopolitico di Stalin, intento a delineare la mappa delle sfere d’influenza del dopoguerra o l’intenzione di Togliatti di costruire il profilo politico istituzionale della nuova Italia? Nel nuovo contesto i due interessi coesistono e si rafforzano reciprocamente, questo lascia lo spazio a Togliatti per manovrare alla sua architettura costituzionale fondata sull’antifascismo, ancorata all’orizzonte della democrazia progressiva, basata sul mantenimento dell’alleanza fra le forze politiche antifasciste, il cosiddetto arco costituzionale. Il rifiuto della politica dei ‘blocchi’, però, resterà l’elemento di confusione geopolitica più pesante nell’evoluzione del partito nazionale, che alimenta il livello di dissimulazione che affliggerà il Partito nuovo fino all’ultimo Berlinguer. La tesi che la politica di amicizia verso l’Urss fosse motivata da ragioni di geopolitica nazionale, con ascendenze cavouriane, e non da una più generale geopolitica di blocco, risulta abbastanza fragile. É vero che al Quinto  Congresso del PCI, il 29 dicembre 1945, Togliatti sostenne «che l’Italia deve fare una politica di amicizia verso l’Unione sovietica, non per motivi ideologici» ma «per motivi nazionali, e per tener fede a una tradizione di difesa dei nostri interessi». Questa analisi metteva in evidenza il tradizionale favore della politica della Russia zarista per l’unificazione italiana in contrasto con la posizione dell’impero Austroungarico. E ancora: «Questi sono fatti che dobbiamo tenere presenti perché indicano non correlazioni ideologiche, ma coincidenze d’interessi e posizioni nazionali che nella storia tendono a ritornare» (Togliatti Opere scelte, Editori riuniti). Giustificare la necessità dell’amicizia con L’Urss in un’Europa divisa dalla ‘Cortina di Ferro’ guardando alla carta geopolitica dell’Europa degli Imperi dell’Ottocento non è però un omaggio al realismo politico, piuttosto un tentativo di dissimulare, di giustificare una visione contraria alla nascente Comunità europea, anche se, comunque, sostanzialmente orientata alla costruzione della ‘via nazionale’ e al ‘Partito nuovo’. Tra il X Congresso  del 1962 e il Comitato Centrale del 1964, Togliatti lavora al passaggio teorico e lessicale del concetto di rivoluzione. Nel 1962 afferma che: «La lotta può estendersi per un lungo periodo di tempo e nella quale le classi lavoratrici combattono per diventare classi dirigenti e aprirsi la strada al rinnovamento […] il problema centrale rimane quello di stabilire uno stretto legame organico fra la lotta per la democrazia e la lotta per il socialismo». Individuato il campo della processualità, manca ancora una precisa determinazione del termine concetto di “rivoluzione”. Cosa che arriverà nel 1964: «La rivoluzione diventa per noi un processo […], noi leghiamo sin d’ora in modo inseparabile la causa del socialismo a quella della democrazia». Il Partito nuovo ancorato alla via nazionale è ormai saldamente iscritto nel gioco democratico parlamentare del quadro costituzionale. Il legame speciale del hic et nunc della politica e l’orizzonte ideale della società socialista è assicurato dal concetto di “democrazia progressiva” che nel disegno togliattiano connetteva il campo dei diritti civili con quello dei diritti sociali. Se il percorso di Togliatti dalla svolta di Salerno al Comitato centrale del ’64 descrive, a tutto tondo, la traiettoria di ancoraggio del Partito comunista italiano alla via nazionale e al processo istituzionale democratico, il ’56 rappresenta il buco nero in questo percorso. Gli eventi, che scandiscono quest’anno, dal XX° Congresso del Pcus, alla rivolta operaia polacca di Poznan, alla guerra d’Ungheria e alla crisi di Suez, rappresentano una mutazione strutturale e della percezione del ‘campo socialista’ e dell’assetto geopolitico globale. Nel nuovo contesto le vecchie geopolitiche di potenza con epicentro in Europa sono definitivamente sostituite dall’intelaiatura della nuova geopolitica bipolare. Il nuovo assetto con le articolazioni dei vari scacchieri regionali, quello Euro-Atlantico, quello del Medio-Oriente e quello del Pacifico, apre prepotentemente il tema della decolonizzazione. Se per l’Occidente si poneva la questione del governo del passaggio dal mondo coloniale a quello post-coloniale, per l’Unione Sovietica il nodo era ben più complesso e verteva intorno al doppio binario: da una parte, in omaggio alla politica dei blocchi, appoggiare i nazionalismi del terzo mondo per sostenere le lotte anti-coloniali e dall’altro, contemporaneamente, reprimere le spinte nazionaliste nei Paesi satelliti, in omaggio ad una politica di potenza imperiale. Questo cortocircuito era generato dal tentativo di sovrapporre una geopolitica di matrice ideologica con una più classica geopolitica di potenza – in continuità con la proiezione imperiale della Russia zarista – che alla fine prevarrà. Il Togliatti attento ad implementare tutti gli sviluppi teorici e pratici per mantenere aperto l’orizzonte del socialismo ne quadro nazionale vede lucidamente che il «problema cui si presta maggiore attenzione per quanto riguarda l’Urss è quello del superamento del regime di soppressione delle libertà democratiche» come ribadirà nel Memoriale di Yalta. Non coglie il nodo tra una politica internazionale orientata al rafforzamento del campo democratico e socialista e una pura proiezione di potenza imperiale che diventava sempre più determinante nel campo socialista. La stessa constatazione che il tentativo di introdurre elementi di riforma nel mondo sovietico esclusivamente attraverso la denuncia del culto della personalità – la destalinizzazione – non fosse sufficiente, può essere anche condivisa. Mentre la preoccupazione che una critica aperta dell’Unione sovietica non fosse né compresa, né accettata dalla maggioranza dei militanti e dallo stesso gruppo dirigente – a sostegno della quale veniva portata la percentuale di voti che il PCI raccolse alle elezioni prima e dopo il ’56 del 22,6% e del 22,68%, e fosse per lo più un preoccupazione di carattere intellettualistico – non tiene conto che quella posizione incise fortemente sullo sviluppo del quadro politico nazionale. Proprio la mancata critica indeboliva i fondamenti della politica del Partito nuovo, fortemente voluti da Togliatti stesso, che erano la prospettiva dell’alleanza tra le grandi forze popolari antifasciste alla base dell’architettura costituzionale, e l’avanzamento di quella democrazia progressiva che doveva contribuire a migliorare la giustizia sociale nel Paese. Questa ambiguità segnerà anche la possibilità che il Pci potesse contribuire a sviluppare quegli elementi di socialità necessari per una più equilibrata architettura dell’Unione europea che in quegli anni era impegnata a definire il mercato unico per poi arrivare alla moneta comune. Ci vorranno il ’68 di Praga e Berlinguer del 1976 per sciogliere quel nodo che si aggrovigliò nel ’56 e impedì al Partito nuovo di esprimere tutte le potenzialità a livello nazionale e internazionale. Dissimulazione o doppiezza? Sicuramente la componente della dissimulazione giocò un ruolo. Per il gruppo dirigente la risposta fu: non ci avrebbero capito. Più che ‘doppiezza’ credo che mancasse qui proprio la percezione del rapido mutamento dello scenario globale, dove alcune categorie dell’analisi storicista della realtà non furono sufficienti ad analizzare i mutamenti reali in corso, che erano sì strutturali, ma anche antropologici: stavano emergendo nuove soggettività che in parte trovarono il Pci impreparato ancora nel ’68 e negli anni immediatamente precedenti al dissolvimento del blocco sovietico.

La politica nell’epoca del provvisorio

Il Togliatti di Canfora, l’uomo politico a tutto tondo, si muove su due registri, uno tutto interno al partito attraverso la dissimulazione – la parola che tradisce l’intenzione – con la funzione del trattenere, di mantenere vivo il mito politico; l’altro, necessario allo stare dentro la Repubblica, che gli impone il rapporto aporetico proprio della possibilità della politica moderna connotata dalla tensione tra orizzonte ideale e il qui e ora dell’azione. Questa condizione della politica moderna come ‘governo dell’epoca del provvisorio’, come sottolinea Canfora, non è data solo per i movimenti e le organizzazioni politiche del novecento di orientamento socialista. Ogni organizzazione politica con un orizzonte sistemico deve convivere con il continuo adattamento con quel patrimonio di opinioni, credenze e pregiudizi che sono invece essenziali per la vita di una società nell’epoca del provvisorio.

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