La battaglia di Rafah e i suoi nodi

L’offensiva a Rafah dovrebbe porre termine all’attuale fase della guerra di Gaza, ma senza un accordo diplomatico che tenga conto dei Palestinesi, Israele e l’intera regione rimarrà instabile ed esposta agli attacchi delle forze anti israeliane e anti occidentali. Con la consapevolezza che per l’instabilità e la violenza della regione la “Questione palestinese” è spesso la maschera per altri fini egemonici e i nodi da sciogliere sono molteplici. Quindi, la guerra in corso tra Hamas e Israele va ricondotta nel suo specifico, ovvero la sconfitta di Hamas, ma anche raccordata con il quadro regionale dell’“asse di resistenza”. Bisogna perciò riprendere la grande strategia sionista delle guerre arabo-israeliane dal 1948 al 1973: vincere la guerra per offrire la pace.

Intanto va affrontato il nodo di Gaza, attraverso la scelta delle modalità di conduzione dell’ultima fase: la battaglia di Rafah. Le consultazioni per il cessate il fuoco tra Israele e Hamas si sono bloccate ancora il 13 febbraio. Il pretesto del blocco sono stati i crescenti segnali che mostravano come Israele stesse preparando l’offensiva finale nella Striscia di Gaza. Il 9 febbraio scorso, Netanyahu ha ordinato all’IDF di preparare un piano di evacuazione dei civili a fronte di una offensiva militare nella città di Rafah, a sud della Striscia, che si trova sul confine con l’Egitto ed è la maggiore città ancora sotto il controllo di Hamas. Dal 12 febbraio, l’IDF continua a condurre operazioni di rimodellamento del terreno per distruggere i rimanenti trinceramenti dei combattenti di Hamas. L’intensificazione di queste manovre appare in contrasto con l’aumento della pressione diplomatica internazionale sulla necessità per Israele di salvaguardare le vite dei civili a Rafah. In quell’area è stimata la presenza di circa 1,1 milioni degli oltre due milini di abitanti della Striscia spinti lì dell’offensiva Israeliana, quando questa aveva iniziato a muoversi verso sud. 

I rapporti sembrano indicare che Israele intenda evacuare i civili verso delle “città di tende” lungo la costa. I governi stranieri continuano ad avvisare che le perdite di civili potrebbero essere alte se l’offensiva militare israeliana di Rafah ripetesse l’intensità e il dispiegamento tattico delle battaglie della città di Gaza e Khan Younis. Netanyahu sta facendo della cattura della città e dell’eliminazione del capo militare di Hamas, Yahya Sinwar, l’obiettivo vitale della guerra. Nello stesso tempo esponenti del governo dichiarano che i 134 ostaggi ancora detenuti a Gaza dovrebbero trovarsi nei dintorni di Rafah, anche se l’IDF ha stimato che un quinto degli ostaggi sequestrati il 7 ottobre scorso sono probabilmente morti in cattività. Ma va ricordato che il salvataggio di ostaggi durante una massiccia offensiva condotta con attacchi aerei, fuoco di artiglieria e truppe corazzate è un evento occasionale, come quello dello scorso 12 febbraio, quando l’IDF ha tratto in salvo due ostaggi.

Benny Gantz del Gabinetto di guerra israeliano ha affermato che le forze israeliane entreranno a Rafah all’inizio del Ramadan, se Hamas non rilasciasse i restanti ostaggi detenuti. Il Ramadan inizierà il 10 marzo. L’affermazione di Gantz indica un possibile cambiamento nella tempistica dell’operazione, visto che lo scorso 10 febbraio la rete televisiva Channel 12 aveva riportato la notizia che il Primo Ministro Israeliano aveva riferito al Gabinetto di guerra che l’IDF avrebbe dovuto concludere l’operazione a Rafah entro il 10 Marzo a causa delle pressioni internazionali. Le strutture militari si sono impegnate a ridurre le perdite civili nelle operazioni di Rafah, ma non hanno ancora pubblicato linee di un piano per l’evacuazione i civili da Rafah. I partner e alleati di Israele, inclusi gli Stati Uniti, si rifiutano di sostenere l’operazione di Rafah senza un piano di protezione dei civili. Il Capo di Stato Maggiore dell’IDF ha affermato, il 13 febbraio, che a Rafah ci sono circa diecimila combattenti di Hamas e oltre un milione di sfollati civili palestinesi. Netanyahu, pochi giorni dopo, 17 febbraio, ha detto che l’IDF deve entrare a Rafah per distruggere i rimanenti battaglioni di Hamas, anche se si raggiungesse un accordo sugli ostaggi. Il giorno prima, il Ministero della Difesa Israeliano ha affermato che Israele non vuole evacuare la popolazione civile di Rafah in Egitto. L’Egitto ha avvertito di non accettare questa campagna ai suoi confini, mettendo in discussione lo stesso trattato di pace, per la preoccupazione che un flusso di profughi della Striscia possa riversarsi nella penisola del Sinai. È quindi invece più probabile che Israele svolga una più sobria versione della sua battaglia di Khan Younis, con singoli battaglioni che lentamente si muovono attraverso Rafah e con limitati attacchi aerei sulle infrastrutture civili. 

Strategie contraddittorie

La “messa in sicurezza” dell’ultima città della Striscia e i tempi e le modalità tattiche con la quale verrà gestita riflettono la pluralità contraddittoria delle strategie e degli obiettivi che la società israeliana, le forze del governo e i componenti del Gabinetto di guerra assegnano alla campagna in corso. Appare sempre più evidente l’emersione di almeno tre linee strategiche. “La sicurezza per la pace”, che sembra prevalente nel Gabinetto, è quella che sostiene sia necessario assicurarsi la sconfitta di Hamas, aprire un confronto con le realtà palestinesi e arabe che accettano lo Stato di Israele – ed io aggiungo, riprendere il percorso della pace in cambio di terra anche oltre la cornice dei due Stati, esplorando forme federative, esempio tra Cis e Trans Giordania. “L’Occupazione per la Sicurezza”, ossia riaffermare la strategia messa in campo da Netanyhau dal 1995, dopo l’assassinio di Rabin, per affossare la prospettiva dei Due Stati. Questa opzione sembrava funzionasse, perché garantiva di tenere separato il fronte Palestinese, di mantenere sotto controllo una moderata violenza in cambio di welfare militare garantito dall’Agenzia Onu, dagli aiuti internazionali e dai finanziamenti attraverso i petrodollari del Golfo. I ciclici scoppi di violenza tra Hamas e Israele -“tosare l’erba” – erano funzionali a rinsaldare le reciproche leadership. Ma le mutate condizioni geopolitiche della regione, con il rafforzamento dell’attore regionale iraniano e la tessitura dell’“Asse di resistenza” di Soleimani, sono quasi certamente il motivo per cui quell’equilibrio è andato in frantumi il 7 ottobre. E la sua riproposizione tentata oggi dal Primo Ministro non sembra essere più così convincente. Una delle attrattività, per gli altri Paesi arabi, di questa strategia era data dalla considerazione che in questo modo il potere destabilizzante dei profughi palestinesi sarebbe stato contenuto nei territori occupati o semi autonomi e non più esportato nei paesi arabi, come era avvenuto in Giordania e in Libano. Gli Accordi di Abramo, con l’assenza dei Palestinesi, sono la registrazione di questa strategia che ha però finito con il rafforzare “l’Asse di resistenza” permettendo la saldatura tra movimenti sunniti e sciiti. Sulle crepe della strategia di Netanyahu si è innescata con sempre maggiore virulenza la strategia dell’annessione silenziosa attuata attraverso i coloni, questa è la terza via che possimao chiamare “L’annessione e l’esilio”. Oggi la rappresentanza politica dei movimenti dei coloni, propugnatori della strategia annessionistica, con venature monarchiche davidiche, è l’elemento chiave della tenuta dell’attuale governo israeliano e sta forzando per piegare l’esito della guerra nella Striscia alla strategia dell’Annessione, con le parole d’ordine: il Palestinesi non sono un problema di Israele, sono un problema degli arabi. Ai loro occhi la battaglia di Rafah rappresenta la prima occasione di esportare i profughi palestinesi nella penisola del Sinai, come primo passo della pulizia della Striscia. I Paesi arabi, in primo luogo l’Egitto, vedono questo tentativo come una bomba capace di destabilizzare l’intera regione. Il progresso di questa strategia è legato alle modalità tattiche con cui l’IDF prenderà Rafah, eliminerà i rimanenti battaglioni di Hamas e attuerà il piano di evacuazione dei civili senza creare disastrose crisi umanitarie. Le divisioni nella società e nelle élites non impediscono ad Israele di vincere la guerra, ma la indeboliscono nel perseguire gli obiettivi del dopoguerra.

Rafah e la gestione del dopoguerra

Sebbene ci siano stati isolati salvataggi, come quello visto il 12 febbraio dovuto all’avanzata delle truppe israeliane, è impossibile per l’IDF assicurare la sicurezza di tutti gli ostaggi senza una trattativa con Hamas. Non importa come evolve, l’offensiva israeliana a Rafah aumenterà il rischio di perdite significative di ostaggi. Da una parte perché l’IDF, a causa della mancata localizzazione precisa degli ostaggi, presumibilmente ancora nell’area di Rafah, li potrebbe accidentalmente ferire o uccidere nel corso della battaglia, come è già accaduto alcune volte, dall’altra perché i militanti che detengono gli ostaggi, di fronte alla sconfitta militare, potrebbero decidere di giustiziarli. La perdita degli ostaggi è probabilmente il peggior sentimento anti governativo in Israele e questi sentimenti anti Netanyahu potrebbe far collassare l’unità del governo e riportare Israele al periodo della instabilità politica e quindi a nuove elezioni.

Con Israele che controlla approssimativamente due terzi della striscia di Gaza, l’IDF potrebbe catturare o uccidere i capi, indebolendo la leadership militare nella striscia di Gaza, degradare la struttura militare, oggi strutturata i battaglioni, in un pulviscolo di cellule che avrebbero minore capacità di combattimento posizionale, ma ne acquisterebbero nella fluidità di movimento e possibilità di agguati e attentati contro le forze occupanti per fomentare movimenti di rivolta. 

Anche se Israele avesse successo, come sicuramente avverrà, nella presa di Rafah con la forza, l’imperativo politico che guida le forze dell’asse della resistenza – Hamas, Hezbollah, Houthi e le altre forze sostenute dall’Iran – rimarrà quello di colpire la navigazione internazionale, così come gli obiettivi Israeliani e Usa nella regione. 

Sul finire della campagna militare di Gaza, il Governo israeliano non è ancora riuscito a concordare su un chiaro percorso per il dopoguerra. L’attuale linea dell’occupazione militare del territorio non può essere procrastinata all’infinito. La mancata indicazione di una prospettiva, oltre l’occupazione, incentiva gli attacchi delle forze pro palestinesi nella regione. Hamas potrebbe spostarsi sulla strategia della rivolta nella striscia di Gaza. Senza una svolta diplomatica che dovrebbe consentire agli attori chiave di dichiarare la fine dell’attuale guerra, i restanti gruppi militanti pro Palestina (non solo a Gaza, ma anche nel west bank e nel sud del Libano), insieme al gruppo militante libanese Hezbollah e le milizie sostenute dall’Iran in Iraq, Siria e Yemen, continueranno a portare attacchi intermittenti sugli interessi Usa e Israeliani nella regione. Questo significa che l’interruzione della navigazione commerciale e gli attacchi contro le basi Usa e i suoi alleati militari persisteranno, anche se con una frequenza più bassa. Il rischio di un grande confronto tra Israele e Hezbollah, oltre i quotidiani scontri di confine, potrebbe culminare con un’incursione o un’invasione del sud del Libano, se non si raggiungesse una soluzione diplomatica che fermi il conflitto. Anche se Israele deve tenere conto che l’ultima incursione nel sud del Libano dimostrò che le milizie di Hezbollah erano in grado di contendere il campo di battaglia. Hezbollah ha chiaramente detto che rigetta ogni tentativo di abbassare la tensione lungo i confini prima della soluzione della Guerra di Gaza, richiesta a cui hanno fatto eco altri gruppi, come gli Houthi in Yemen, che hanno assunto la stessa posizione, affermando che continueranno nei loro attacchi fino alla conclusione della guerra in corso. E’improbabile che l’asse di resistenza possa mai interpretare la conquista militare e l’occupazione di Gaza come un accettabile fine della guerra. Vincere il dopoguerra per Israele sarà, ancora una volta, più importante è più difficile delle vittorie militari.

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