di Dario D’Italia

Con due operazioni brillanti, il caos nelle comunicazioni generato dalla simultanea esplosione dei beeper e l’azione mirata di decapitazione della catena di comando di Hezbollah, Israele ritorna alla grande strategia nella quale l’esercizio della violenza condotto dall’azione militare sostiene la dimensione politica per la disarticolazione dell’Asse della Resistenza. Si riprende la lezione di Ben Gurion, della difesa attiva per portare la guerra nel campo avversario. Dopo mesi in cui la risposta alla strage del 7 ottobre e la necessaria eradicazione di Hamas, è stata viziata dalla pura esibizione della forza – anche brutale – senza una prospettiva politica, aggravata dalla pretesa che spettasse all’IDF non solo sconfiggere Hamas, ma anche la sua distruzione, con l’illusione che essa potesse essere raggiunta senza una visione politica del dopoguerra, la decisione di spostare la guerra al Nord e darle un corretto obiettivo e sbocco politico, ha principalmente riprodotto quell’unità nazionale che era stata profondamente lacerata dalla condotta della guerra nei mesi terribili che hanno seguito la strage del 7 ottobre e ha ricreato anche una maggiore intesa con gli alleati Usa e Inglesi. In questo periodo è apparso sempre più chiaro quanto la questione palestinese, anche se nidificata nella dimensione della geopolitica dell’islamismo, rappresentato dall’Asse di resistenza, non sia sovrapponibile interamente ad essa. È invece più probabile che la disarticolazione dell’asse di resistenza e il ridimensionamento dell’elemento teologico possa giovare a condurre le questioni israelo palestinesi su binari più politici.

Israele ha sconfitto Hamas, ma la sua distruzione richiede una visione del dopoguerra

Nell’anno alle nostre spalle, Israele ha sconfitto Hamas nelle principali roccaforti della Striscia di Gaza. Le forze di Hamas hanno subito pesanti perdite e non sono più in grado di mantenere livelli di operatività come unità militari. Ma la sconfitta è diversa dalla distruzione. La prima si verifica quando le forze nemiche hanno temporaneamente o permanentemente perso i mezzi fisici o la volontà di combattere e sono obbligate a cedere alla volontà del nemico. Inoltre la loro sconfitta ha bisogno di molte meno risorse e tempo, rispetto alla sua completa distruzione. Mentre la distruzione del nemico richiede che il danneggiamento raggiunga un grado che gli impedisca di funzionare, senza essere interamente ricostruito. Passare dalla sconfitta delle brigate di Hamas alla distruzione dell’organizzazione richiede, però, misure addizionali sia israeliane che internazionali che impediscano ad Hamas di ricostruire le proprie capacità militari. La prima risorsa politica da sottrarre ad Hames è oggi il sangue palestinese. Già nell’estate del 2024 gli attacchi di Hamas contro obiettivi IDF sono apparsi opportunistici e privi di sofisticazione tattica, non più inquadrabili in una strategia di piano per una campagna coordinata tra i vari scaglioni. Il decremento dell’efficacia di Hamas è stato descritto in una lettera del comandante delle brigate, Rafe Salamah, al leader di Hamas Yahya Sinwar, prima della sua morte il 13 luglio, nella quale spiegava che la brigata aveva avuto il 50 per cento di perdite, con un rimanente 25 per cento di combattenti mentalmente o fisicamente inadatti al combattimento. Salamah aveva scritto anche che la brigata aveva perso il 60 per cento delle sue armi leggere e tra il 65 e il 70 per cento delle armi anti carro. Le brigate hanno visto eliminati nelle stesse percentuali i comandanti, incluso Salamah, che sarà molto difficile sostituire. Nonostante ciò, i combattenti rimasti probabilmente continueranno a condurre attacchi opportunistici contro le forze israeliane, anche se questi attacchi non saranno efficaci, sebbene possano sfociare in una diffusa violenza a basso livello, costringendo un dispiegamento militare a tempo indeterminato. Tutte le brigate hanno certamente perso l’accesso ai principali depositi di armi, e razzi, al personale e alla rete dei tunnel, dato che l’IDF ha distrutto la rete di tunnel usata per facilitare la cooperazione sotterranee e il movimento delle unità di Hamas tra le brigate del nord e del sud. Nello stesso tempo, il corridoio di Netzarim ha fortemente limitato le loro capacità di ricostituire potenziale di combattimento, ostacolando fortemente la redistribuzione di combattenti e forniture.

Detto ciò, la sconfitta di Hamas nella Striscia di Gaza non significa che le milizie palestinesi alleate siano state sconfitte allo stesso modo, che ancora, con una certa frequenza, bombardano le posizioni dell’IDF e conducono isolati attacchi con armi leggere. Nelle ultime settimane queste forze hanno rivendicato quasi il doppio del numero degli attacchi rispetto a quelli condotti Hamas nei mesi di luglio e agosto, dimostrando la loro rilevanza. Queste milizie, sebbene minori e poco organizzate, potrebbero essere ancora capaci di interrompere gli sforzi di istituire un’autorità politica che sostituisce Hamas. Inoltre, col tempo l’Iran e l’asse di resistenza potrebbero sostenere questi gruppi piuttosto che un Hamas così severamente indebolito. 

La sconfitta è, comunque, una condizione temporanea, che richiede un’iniziativa politica per prevenire la ricostituzione di Hamas e interdire le forniture per la sua rigenerazione. La risorsa politica da mettere in campo per trasformare la sconfitta di Hamas nella sua distruzione, deve essere in grado di far sì che le condizioni necessarie alla sua ricostruzione (tempo e denaro) siano negate. Senza un’iniziativa politica, come si sta profilando già in queste settimane, l’occupazione militare si troverà costretta a gestire una permanente situazione di violenza a bassa intensità e Hamas, comunque, sarà capace di addestrare nuove reclute e potenzialmente ricostruire un arsenale di armi in grado di minacciare di nuovo Israele. Prevenire la rigenerazione di Hamas nel lungo tempo, dovrebbe richiedere la messa in campo di un affidabile forza di sicurezza in grado di impedire l’addestramento di Hamas e l’agibilità di altri gruppi terroristici, senza la perpetua presenza delle forze aeree e terrestri dell’IDF. Per cui la distruzione politica e militare di Hamas, richiede l’articolazione di una proposta politica per Gaza e il West Bank e l’applicazione dei mezzi necessari per raggiungere questi obiettivi.  Israele ufficialmente vuole distruggere Hamas, sia come organizzazione militare, sia come organizzazione politica. Oggi ha sconfitto la sua ala militare, ma Israele avrà bisogno di definire lo sbocco politico per avviare le condizioni necessarie per distruggere il gruppo come insieme. 

La trappola della sicurezza in cambio della pace

La dottrina Ben Gurion considerava il conflitto arabo-israeliano come elemento centrale ,che avrebbe impegnato per lungo tempo lo Stato di Israele, rispetto alla marginale questione Palestinese. Un confronto aspro, totalizzante ed esistenziale, in un contesto geografico e demografico da incubo strategico. Una striscia lunga e stretta tra vicini bellicosi e il mare, con confini privi di difese naturali. In questo contesto, la cosiddetta dottrina Ben Gurion poggiava proprio su queste asimmetrie strategiche con i nemici, geografiche, demografiche, economiche e psichico ideali o di resistenza, di razionalità degli obiettivi, di relazioni e di sostegno internazionale.  L’organizzazione di una strategia basata su questi elementi, per trasformare i punti di forza avversari in punti di debolezza, richiedeva una democrazia in armi, basata su tre pilastri: deterrenza, mobilitazione permanente e decisione militare. Una strategia difensiva attiva, da praticare in modo offensivo trasferendo la battaglia in campo nemico. Ma l’impianto era sempre finalizzato alla ricerca della pace, come fine strategico dell’azione. La soluzione della questione palestinese era incastonata nella ricerca di garanzia di sicurezza per Israele, mentre la necessità di un quadro di alleanze con le grandi potenze era essenziale contro un’isolamento internazionale che poteva portare alla catastrofe. Per mezzo secolo la politica di Israele si è mossa in un mix ben calibrato, messo in opera dai fondatori socialisti dello Stato, tra orgoglio di poter far da soli e attenzione ai suggerimenti degli amici e alleati, e alle interdipendenze della politica internazionale.

Quella dottrina strategica è stata, però, geneticamente mutata all’inizio del nuovo secolo. Netanyahu, dopo l’11 settembre, ne ha completamente stravolto i connotati da multilaterale a unilaterale, da difesa attiva a offensiva permanente, da lotta ai terroristi a lotta ideologica al terrorismo. Lo scambio avvenne attraverso la proposta di Netanyahu di scindere il problema della sicurezza, da quello difficile della ricerca della pace. Se la pace è un percorso difficoltoso, se ne può anche fare a meno e decidere di puntare solo sulla sicurezza, ma questo, come vediamo, porta all’attuale paradosso di Israele, che è capace di sconfiggere l’avversario, ma non di annientare il nemico. Questo cambio di prospettiva è stato il filo conduttore che ha “influenzato sempre più il modo di percepire l’ambiente strategico circostante dei responsabili politici e militari e di conseguenza il loro modo di soppesare i rischi e le opzioni, nonché di valutare gli avversari.”1 Come sappiamo, l’intelligenza della realtà è sempre una particolare organizzazione degli elementi della realtà e della loro finalizzazione. Questo è “un pericoloso peccato di hubrys […]. Malgrado la forte autonomia funzionale degli apparati di sicurezza e dell’esercito – che non arriva però all’autosufficienza nemmeno oggi, basta guardare la dipendenza dal munizionamento americano […] -, queste organizzazioni sono perfettamente consapevoli che nel mondo di oggi nessuno può difendersi da solo. Il problema è che negli ultimi vent’anni, con l’assassinio di Rabin a fare da spartiacque, si è affermata una leadership politica che predica esttamente il contrario. E che per questo entra in crescente contrasto con l’intelligence e l’esercito. Un contrasto che diventa scontro e vera e propria resa dei conti quando i nodi arrivano al pettine, e tale politicizzazione diventa controproducente o addirittura pericolosa. Come la mattina del 7 ottobre 2023.”2

Israele tra Occidente e Oriente

Secondo Carl Schmitt, ogni concetto politico rilevante è la secolarizzazione di un concetto teologico. Applicando questa lente possiamo vedere il Sionismo come secolarizzazione della “promessa biblica” nel tempo storico attuale, come progetto politico che si propone di ricondurre il popolo di Israele alla terra promessa.  Il Sionismo si afferma in un’Europa in piena epoca romantica del cosiddetto risveglio delle nazionalità e dell’autodeterminazione. Il nucleo originario di Israele è alimentato dalle “aaliyah3, a partire dalla prima che si svolse tra il 1881 e il 1903, innescata dai pogrom russi del 1881-82, a cui ne seguirono periodicamente altre tre. Il ceppo originario che alimentò i primi flussi era distribuito tra Germania, Russia, Ucraina e del resto dell’Europa orientale. I leader di questo progetto, immancabilmente di origine laica e ashkenazita – la parola Ashkenaz nel Talmud designa la Germania -, si mossero secondo le linee del movimento ispirato da Herzel che sostenne la necessità di “fondare uno Stato evoluto, dove il nostro popolo possa vivere soltanto del suo lavoro, scongiurando ogni tendenza teocratica, tenendo i rabbini nelle sinagoghe come teniamo i soldati nelle caserme.”4

Da quì anche l’insistenza di Ben Gurion sulla necessità che i nuovi israeliani acquisissero un rapporto di intimità con la terra, attraverso il lavoro comune nei kibbutz, che fu centrale nella seconda Aaliyah. Gli ashkenaziti e la loro cultura laica e socialista gettarono le basi del nuovo Stato di cui presero le redini. Al momento della proclamazione dell’indipendenza, gli haredim – gli ultra religiosi – erano poche centinaia e si opponevano alla creazione dello Stato sionista. Anche gli ebrei sefarditi – sempre nel Talmud, Sefaras è il nome della Spagna -, da secoli residenti nel Levante, in Medio Oriente e nel Nord Africa, dopo le espulsioni dalla Spagna e Portogallo avvenute tra il 1492 e il 1496, non avevano partecipato all’impresa sionista. Solo dopo la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale, gli ultraortodossi presero a emigrare verso Stati Uniti e Israele, la maggior parte dei quali si insediarono nelle periferie di Tel Aviv e Gerusalemme. Con la prima guerra arabo israeliana lo scenario cambia, tra il 1948 e il 1978 più di 856 mila ebrei sefarditi furono espulsi da Iraq, Marocco, Algeria, Egitto, Yemen e Libia. Di questi 600 mila si diresse verso Israele, mentre il resto scelse altre destinazioni, prevalentemente gli Stati Uniti. A causa di questa “Aaliyah forzata”, Israele dovette confrontarsi con i nuovi cittadini identificati come “mizrahim”, ossia orientali, levantini, anche in spregio delle leggi geografiche della longitudine. I nuovi arrivati, per cultura, istruzione e comportamenti, si trovarono in fondo alla scala sociale. Dopo la Guerra dei 6 giorni, una parte dei mizrahim, alla ricerca di una sistemazione economica, e degli ultraortodossi diedero avvio alle colonie nei territori occupati. 

A dispetto della precedente composizione demografica, che vedeva predominare gli ashkenaziti, “oggi i mizrahim costituiscono il 62% della cittadinanza locale, gli haredim il 13%, con tassi di fertilità quasi doppi rispetto agli altri.”5 Ma “secondo il rapporto statistico ufficiale del 2022, gli ebrei israeliani che si definiscono laici sono il 43%, il 14% circa si definisce tradizionale-religioso, il 10% circa religioso e un’altro 10% haredi, cioè ultraortodosso.”6 Nel 2015, il presidente Reuven Rivlin descrisse la popolazione Israeliana come divisa in quattro tribù, ognuna stanziata intorno ad un centro gravitazionale: i laici, rappresentanti della storia patria e discendenti dei primi sionisti, intorno a Tel Aviv; intorno a Efrat simbolo degli insediamenti nel West Bank, i nazionalisti religiosi o neo sionisti; intorno a Bnei Brak gli ultraortodossi, inizialmente antisionisti, oggi sionisti messianici; infine gli arabi israeliani, nipoti di quei palestinesi che nel 1948 scelsero di rimanere in Israele, nel distretto di Haifa7. Altra tendenza che emerge in filigrana è rappresentata dalla frattura sempre più evidente della faglia teologica. I fondatori dello Stato di Israele si erano mantenuti nella linea tracciata da Herzel della separazione tra Stato e Sinagoga, che oggi rappresenta la cifra civile e culturale del mondo askenazita, a cui si contrappongono in forme sempre più aggressive i sionisti religiosi, gli anti sionisti e la complessa galassia dei Mizrahim. Per i quali “Non più amante, la religione dovrebbe costituirsi legittima sposa dello Stato.”8 

Già con l’approvazione della legge sulla nazionalità, sostenuta con forza dai sefarditi e ultraortodossi, si codificò il proposito di fissare una superiorità degli ebrei nell’ordinamento dello Stato. In questo modo la formale annessione della Cisgiordania e dei milioni di arabi non avrebbe influito sulle dinamiche del potere.  Il nuovo quadro legislativo avrebbe posto fine all’ipocrisia dei “due Stati”, imposto all’IDF di lasciare il governo dei territori occupati da affidare alle autorità civili affiancate da milizie e di fatto sancito il passaggio da un regime di occupazione militare di un territorio straniero ad un’annessione. Un altro tassello del superamento della democrazia occidentale, in favore di un orientalismo teocratico, è rappresentato dal tentativo di sovraordinare il potere del parlamento alla Corte suprema, con la potestà nominare i giudici e di capovolgere le sentenze con una votazione a maggioranza semplice. Inoltre per gli haredim ci sarebbe il riconoscimento della preminenza dei tribunali rabbinici. Contro questa deriva levantina, nel corso di questi anni si sono svolte imponenti manifestazioni di piazza, che hanno raccolto circa il 10% dell’intera popolazione e di migliaia di riservisti del Tsahal. Stretto in questo dilemma, Israele non può non tener conto che, pur dotato di potenza militare e di capacità tecnologiche significative, ha la vitale necessità della garanzia militare e diplomatica degli Stati Uniti. Per gli Usa, Israele è un alleato molto importante per la costruzione di un equilibrio regionale in Medio Oriente, che impedisca l’emergere di egemoni come l’Iran o la Turchia. Ma la relazione è sbilanciata, l’America può vivere senza Israele, mentre per Israele sarebbe molto più difficile. Il progressivo abbandono dell’impianto democratico può minare la narrazione di Israele, unica democrazia del Medio Oriente, causando un’ulteriore scollatura nel mondo euro atlantico, che non sarebbe più scudo dell’ostilità del resto del mondo. Né l’abbandono dell’Occidente l’aiuterebbe a superare il marchio di potenza coloniale impresso dai propri vicini. Nel Medio Oriente resterebbe un soggetto alieno, anche con un impianto istituzionale omogeneo. Le stessa annessione della Cisgiordania, anche con statuti giuridici differenziati tra gli ebrei e gli altri, esporrebbe Israele ad una bomba demografica palestinese innescata proprio dalla differente condizione giuridica.

Il Sabra 9: l’uomo nuovo, l’ebreo israeliano

Ben Gurion descrive lucidamente la sua visione di come la costruzione di Israele abbia bisogno di un popolo israeliano. “Nel 1906, all’età di 19 anni, […] mi imbarcai con alcuni amici su un mercantile russo diretto verso il Mediterraneo orientale. […] Due settimane dopo aver lasciato la Russia, Jaffa ci si stagliò davanti. […] eravamo arrivati alla Terra che volevamo redimere con il nostro lavoro. […] Tra le primissime delusioni c’era lo spettacolo degli ebrei della prima aliah, che vivevano adesso come effendi traendo i propri redditi da culture e campi dove lavoravano braccia mercenarie [arabi palestinesi], o da da occupazioni del genere di quelle imposte al nostro popolo dal suo esilio. E mi era chiaro che mai avremmo potuto realizzare la nostra riabilitazione nazionale in quel modo. Tra terra e il popolo doveva esserci il legame del lavoro.”10 Alla previsione di Asher Ginzberg che sosteneva “ che la popolazione rurale nella Terra d’Israele, […], sarà sempre una popolazione borghese, una minoranza colta e altamente sviluppata, forte solo di intelletto e di ricchezza.”11, contrappose la potenza costitutiva della seconda aliyah. “Due generazioni di pionieri, non ritraendosi da nessuna fatica, […] mandarono a vuoto la pessimistica previsione […] L’aliah dei pionieri generò una comunità ebraica radicalmente diversa da tutte le altre, indipendente in termini economici, culturale e di linguaggio, capace di difendere se stessa. [I kibbutz] […] giovani e ardenti pionieri della seconda aliah continuavano a sbarcare a Jaffa e diffondersi in tutto il paese.”12 Con queste rapide pennellate Ben Gurion descrive il nuovo cittadino che sarà l’architrave del nuovo Stato, che successivamente sarà indicato come Sabra. Ben Gurion da subito vuole sgombrare il campo dalla possibile identificazioni degli ebrei come colonizzatori che sfruttano risorse umane e materiali locali. Il nuovo cittadino non sarà un uomo nietzschiano bensì l’Homo faber. Il sionismo politico dei fondatori si fondava su due architrave, uno costituito dal nuovo cittadino, l’altro dall’architettura istituzionale che teneva i soldati in caserma e i rabbini in sinagoga.

La guerra asimmetrica
Le guerre classiche, dal 1948 al 1973 contro i paesi arabi, e la prima guerra del Libano, furono condotte secondo le dottrine strategiche maturate e attuate dagli eserciti della Seconda Guerra Mondiale. La superiorità Israeliana si affermò con l’esaltazione della manovra combinata aereo-terrestre e la preponderanza delle forze corazzate – carri e artiglieria – che richiedevano spazi per la manovra, infatti le aree poco popolate e desertiche della Penisola del Sinai, rappresentano il teatro ideale per questo tipo di guerre. Mentre dove il terreno era meno congeniale alla manovra dei carri, come le alture del Golan e le aree collinose e urbanizzate della Cisgiordania, la superiorità fu affidata alle forze aeree che disarmarono la Giordania e la Siria all’inizio dei conflitti. Dopo il 1973 l’IDF dovette affrontare una nuova dimensione della guerra che possiamo rubricare complessivamente come guerra asimmetrica. Fino a quel momento, quella che diventerà la Questione palestinese, era una componente che i singoli Paesi arabi usavano per promuovere le loro politiche estere nel conteso internazionale e in quello arabo-islamico.

Infatti con quella che viene chiamata la battaglia di Karameh, del 21 marzo 1968 – uno scontro secondario, dove gli israeliani persero 27 carri – la guerra entrò in una nuova dimensione. Dopo questo successo, i palestinesi rivendicarono una rappresentanza autonoma e cercarono di emanciparsi dall’utilizzo strumentale con il quale i Paesi arabi – in particolare l’Egitto – avevano utilizzato la così detta Questione palestinese. Il nuovo movimento in qualche modo voleva collegarsi alle lotte anticoloniali di quegli anni, sebbene avesse caratteristiche particolari. Il suo principale radicamento era nei campi profughi all’estero, in Siria, Giordania e Libano, piuttosto che nei territori. Non avendo i palestinesi accettato la Risoluzione dell’Onu, non avevano nemmeno una precisa rivendicazione territoriale su cui basare le politiche, se non la richiesta massimalista di estinzione dello Stato di Israele riconosciuto dall’Onu. La forza militare dell’Olp era dislocata prevalentemente al di fuori della Palestina. La nascita del primo movimento politico palestinese va letta nel contesto nelle manifestazioni del nazionalismo arabo e del panarabismo che germinò nella prima metà del ‘900, con il disfacimento dell’Impero ottamano a seguito della Prima Guerra Mondiale, ma che assunse forma politica nella seconda metà del secolo, sotto la guida egiziana e in parte siriana. Nella prima fase del movimento, la componente nazionalista fu molto forte e, anche se non mancarono le componenti terzomondiste e internazionaliste, il sottofondo islamico restava però un background inespresso. L’ambiente culturale che aveva nutrito Arafat era alimentato dalla piattaforma dei “fratellanza musulmana”13

Con la seconda intifada la Questione palestinese cambia natura, l’elemento nazionale, o meglio nazionalistico, con le sue venature anticoloniali e internazionaliste, presente nella galassia dell’Olp dominata da Arafat, viene soppiantato da Hamas che conduce la Questione Palestinese alla dimensione teologica dell’Islam. Questo introduce un’ulteriore torsione nella guerra asimmetrica in corso.

Guerra senza limiti

I nuovi teatri della guerra sono oggi costituiti sempre più, se non esclusivamente, da ambienti urbanizzati. Le nuove guerre, dalla fine degli anni ottanta e i primi decenni del nuovo secolo, hanno costretto gli eserciti di tutto il mondo a riflettere su una relazione emergente tra conflitti armati e ambiente edificato. L’ambiente urbano nel pensiero militare progressivamente si spoglia della sua unica dimensione topografica, di sfondo del conflitto, per diventare il campo dinamico di una relazione basata sul feedback con le diverse forze che operano al suo interno: gli abitanti, i soldati, le guerriglie, i giornalisti e gli agenti umanitari. La guerra urbana si avvale sempre più della distruzione, costruzione, riorganizzazione e sovversione dello spazio. L’architettura e la pianificazione diventano, perciò, tra le discipline di riferimento più importanti per i militari14.

La guerra senza limiti in Israele è la guerra attraverso i muri

Il laboratorio centrale per lo sviluppo delle operazioni di guerra contemporanee, soprattutto, ma non esclusivamente in ambiente urbano, è stato senza dubbio il territorio palestinese occupato. Durante la Seconda intifada, gli attacchi dell’esercito israeliano alle città e ai campi profughi palestinesi, furono studiati nei minimi dettagli anche da militari stranieri, in particolare americani e britannici, mentre si preparavano all’occupazione dell’Iraq e, in modo significativo, da pianificatori civili che cercavano di escogitare modi per proteggere i centri cittadini dagli attacchi terroristici. 

Shimon Naveh, generale di brigata, oggi in pensione, è il più importante filosofo-soldato teorico della guerra urbana di Israele e è stato direttore di quello che le Forze di difesa israeliane chiamano Operational Theory Research Institute. L’azione più studiata per le operazioni militari in territorio urbano è rappresentata dalla pianificazione dell’attacco del 3 aprile 2002 ai campi profughi di Balata. nella Città Vecchia di Nablus. Un attacco, comandato dal generale Aviv Kochavi15, oggi considerato l’ispiratore della campagna del Libano, che uccise più di ottanta  tra civili e combattenti palestinesi e distrusse e danneggiò molti degli edifici della città. L’azione fu concepita e condotta attraverso la riorganizzazione dello spazio di battaglia. Lo scopo dell’ attacco non era quello di conquistare territorio o di controllarlo, ma di localizzare la minaccia – in questo caso membri della resistenza palestinese – eliminarla e andarsene. In questo contesto asimmetrico la minaccia non era rappresentata dal mancato controllo del territorio, bensì dalla presenza fisica del combattente. La rimozione della minaccia consisteva nella sua eliminazione fisica. L’obiettivo dell’azione militare non era più l’occupazione e controllo dello spazio, ma l’eliminazione della “nuda vita” del combattente. Queste nuove tattiche implicano l’inversione degli obiettivi tradizionali della guerra. L’esercito non uccide i soldati nemici, come mezzo per ottenere il terreno strategico che vuole occupare, ma entra temporaneamente nel terreno strategico per uccidere i suoi nemici. L’uccisione non è più un sottoprodotto della manovra militare, ma la sua stessa essenza.

L’operazione scattò per interdire un gruppo di miliziani che dal campo profughi Askar di Nablus si apprestavano a stabilire una base operativa nel campo profughi di Balata, nel centro storico di Nablus. Non bisognava conquistare il territorio e controllare lo spazio, era un’operazione di prevenzione, che non si sarebbe svolta secondo una pianificazione standardizzata, ma su un modello di auto apprendimento basato sulla propria esperienza. Le informazioni sulla quale costruire l’operazione si basavano sulla sommaria valutazione della consistenza della forza, tra gli 80 e i 200 miliziani, armamento leggero, dislocazione nel recinto del campo profughi, nessuna conoscenza dei livelli organizzativi e della catena di comando, né del loro dispiegamento. La preparazione dell’azione, sulla base di queste informazioni, contraddiceva le più elementari regole della pianificazione. Bisognava tener conto che l’ambiente urbano offriva alle forze irregolari, nelle operazioni contro le forze convenzionali, un insieme di vantaggi come scudi umani, nascondigli, basi logistiche illimitate. Un palcoscenico spettacolare e un ambiente mimetico che favorisce la scomparsa. Le aree urbane focalizzano le forze regolari e riflettono le irregolari. Le forze regolari sono addestrate all’evidenza topografica della geometria convenzionale, all’ordine meccanicistico, alle regole di ingaggio e al timore per le vittime collaterali. Per cui le entità sovversive hanno sviluppato la dottrina secondo cui nessun esercito convenzionale si impegnerà in una lotta seria nella giungla urbana. In base a questo schema si sarebbero aspettate che il nemico fosse arrivato alla vecchia maniera, con  formazioni meccanizzate in linee coese e colonne di massa conformi all’ordine geometrico del modello della rete stradale. Balata, quasi deterministicamente, si sarebbe apprestata a diventare una “Stalingrado palestinese”. I miliziani avevano fortificato tutti gli ingressi al campo, minato e piazzato trappole esplosive antiuomo e anticarro in strade e vicoli, e raccolto tutti i materiali e le risorse di combattimento di cui disponevano. In altre parole, avevano trasformato Balata in una rocca e preparato il terreno per uno spettacolo di combattimento, in cui si aspettano che l’attacco alla fortezza obbedisse alla tradizionale logica spaziale, che sarebbe stata favorevole alla difesa.  Invece, la pianificazione Israeliana si applicò sullo sfruttamento di alcuni aspetti cognitivi unici. Ad esempio i miliziani si aspettavano che nelle aree urbane gli spostamenti di uomini e mezzi avvenissero lungo le strade o vicoli, ma questo dato può essere manipolato in modo da distorce sia i loro  processi di pensiero che i modi di comportamento. Applicando il pensiero critico si ha quindi la possibilità di ricostruire la “forma mentale e comportamentale” del combattente, per sovvertire la loro percezione della minaccia o della sicurezza associata agli elementi dello spazio, strade, piazze, o case. Se della nuova dislocazione della minaccia non era possibile avere dati, tuttavia, si poteva presumere che inconsciamente, si sarebbe adattata alla forma complessiva della nuova base: difesa perimetrale, controllo degli incroci e delle direttriciu di penetrazioni, con sistemi di mine e postazioni di cecchini protetti dai muri. Quindi, si poteva non conoscere l’esatta ubicazione di ogni elemento combattente, ma si poteva razionalizzare il loro modo logico di vedere e la loro forma sistemica o operativa. Poiché i confini fisici della base riflettono la loro forma operativa, si sarebbe potuto progettare un complesso schema frattale16 di manovra che nascondesse la forma dell’attaccante e imponesse condizioni caotiche al loro processo cognitivo, decostruendo e destrutturando la loro struttura operativa. 

Gli stessi problemi operativi  imposti dall’ambiente urbano con le sue limitazioni topografiche, strade, vicoli lineari e piazze, potevano essere superati da una nuova concezione degli spazi, dei pieni e dei vuoti. Una volta immersi nello spazio urbano anziché muoversi attraverso le strade, e i vicoli, si sarebbe scelta la via di “passare attraverso i muri”. I movimenti tattici si sarebbero svolti attraverso case ed edifici e non intorno a loro. In questo modo  era possibile mettere in atto una manovra frattale che sciamasse simultaneamente da ogni direzione e attraverso lo spazio multidimensionale di Balata. L’accampamento fu isolato completamente, in pieno giorno, per creare il convincimento di un’imminente operazione di assedio sistematico. Ogni unità di combattimento, delle dimensioni di una compagnia, rifletteva nella sua modalità di azione sia la logica che la forma della manovra generale. Con questa nuova forma di manovra, che abbiamo detto doveva, individuare la minaccia, sovvertire la percezione di sicurezza e pericolo, costringerli a muoversi in ambiente non protetto e eliminare la minaccia, ogni squadra doveva combinare quindi i tre componenti dell’ operazione: elementi di ricerca degli obiettivi, elementi esca per i miliziani, team di cecchini. La tattica di passare  attraverso gli edifici serviva a rendere insicuro per i difensori l’ambiente interno, una volta considerato il nido protetto dei cecchini per tenere sotto tiro uomini e mezzi in movimento sulla strada, e  spingerli nelle strade e nei vicoli, dove la maggiore potenza di fuoco delle squadre israeliane avrebbe avuto la meglio. Il paradigma della manovra riguarda il sovvertimento dell’ordine geometrico, la coesione fisica e la potenza di fuoco combinato. Ogni volta che si passa da una modalità di azione basata sulla presenza a modalità di azione basata sulla scomparsa, e da un quadro di manovra che riflette la geometria euclidea a un quadro di manovra che riflette la geometria della complessità, ingrandiamo la dimensione dello spazio in cui sfruttare il potenziale dell’attaccante, e allo stesso tempo spingiamo le sfide cognitive degli attaccati a nuovi estremi. 

L’Asse di resistenza nella lotta per l’egemonia regionale

“La parola chiave che dalla fine di settembre si sente ripetere più spesso [in Israele] non è ‘lotta al terrorismo’ ma ‘New order’ in Medio Oriente” 17. L’attacco israeliano al Libano si inserisce in un nuovo tipo di guerra, dove Israele ha recuperato capacità di coordinamento con i suoi alleati e rifinalizzato i suoi obiettivi politico militari, passando dalla cosidetta lotta al terrorismo a quella dell’assetto geopolitico del Medio Oriente. Anche se nella vulgata corrente il Medio Oriente attuale è scrutato attraverso la questione israelo-palestinese è più corretto un punto di osservazione che inquadri l’attuale scontro in atto come una lotta per l’egemonia regionale che vede tre attori principali in lizza: Iran, Israele e, in modo più defilato, la Turchia. 

L’attacco condotto da Hamas il 7 ottobre si è mosso su due registri, quello interno che mirava a prendere l’egemonia anche in Cisgiordania per far sollevare la popolazione, l’altro, per conto dell’Iran, per minare il processo di consolidamento del “Patto di Abramo”. Obiettivo da raggiungere umiliando la deterrenza israeliana e costringendo i Paesi arabi a defilarsi a causa della dura reazione israeliana contro i palestinesi e privando la Turchia della missione panislamica, abbracciata dagli ayatollah sventolando il feticcio della causa palestinese. Nel suo gioco egemonico l’Iran, con l’Asse di resistenza, esalta la fedeltà dei combattenti arabi disposti a favorire il loro disegno imperiale. Da Bagdad a Beirut, da Damasco alla Valle della Beqa, dal Sistan al Golfo di Aden si muovono combattenti. L’Iran oggi può disporre di milizie libanesi, alauite, irachene e houthi, le quali agiscono su obiettivi propri, ma che sono incastonati in uno scenario più grande. Questo grande alone dell’incertezza e della minaccia fornisce profondità a Teheran. L’azione degli Houthi di interdire la navigazione del fondamentale collo di bottiglia Bab el-Mandeb (Porta del Lamento), dove transita il 13 per cento del traffico commerciale mondiale, ne è l’esempio più eclatante. Dopo il 7 ottobre, Israele a Gaza ha scelto di rispondere con asimmetria. Gaza è stata affrontata non come questione da risolvere, ma per dimostrare la superiorità militare e ricostruire verso il mondo e, soprattutto le monarchie arabe, la deterrenza. La decapitazione delle catene di comando, l’alto numero di vittime, la diffusione della violenza a bassa intensità dimostrano che ha condotto male la battaglia di Gaza. Non è riuscita a sciogliere Hamas e non ha recuperato gli ostaggi. 

Anche il piano di Hamas è fallito. Il massiccio uso della sua più potente arma, il sangue palestinese, è riuscito solo ha infiammare parti delle opinioni pubbliche occidentali. I palestinesi della Cisgiordania, infatti, non hanno superato la soglia della violenza a bassa intensità e non hanno iniziato una nuova intifada. In questa chiave gli Accordi di Abramo restano una cornice funzionale all’azione di contenimento anti-iraniano. Questo potrebbe portare ad un rovesciamento del disegno di Ben Gurion che “soleva disegnare sui tovaglioli dei ristoranti un’alleanza anti araba, detta “della periferia”, [con Ira e] contemplante anche Turchia e Etiopia”18. Ben Gurion immaginava una geopolitica della regione costituita da un nucleo centrale rappresentato da Israele, da un anello di nemici esistenziali, i Paesi arabi, contro i quali bisognava che Israele organizzasse un’alleanza, costituita in grande maggioranza da Paesi mussulmani, ma non arabi, come Iran, Turchia e Etiopia: un ulteriore anello esterno che di concerto con il nucleo tenesse a bada gli Stati arabi. 

La rivoluzione iraniana del 1979, l’irruzione dello sciismo politico e la diffusione dello Jihadismo hanno capovolto i termini di base dell’equazione geopolitica mediorientale. Con gli Accordi di Abramo si rovescia lo schema e si usa la relazione con l’anello interno, i Paesi arabi, contro l’anello esterno, ovvero la vecchia “alleanza della periferia”, mai veramente decollata. Nello scenario odierno, invece, l’Iran e la Turchia, sono entrambi interessati alla competizione per l’egemonia regionale che Israele intende assicurare a se stessa. Questa nuova postura ha bisogno da un lato di recuperare credibilità nella deterrenza, fortemente incrinata il 7 ottobre, con l’esibizione di potenza militare, ma soprattutto capacità strategica di frantumare la proiezione dell’Iran sul Mediterraneo Orientale, distruggendo il corridoio costituito dal Iraq, Siria e Libano. La disarticolazione del corridoio non significa occupazione militare, ma negare a Hezbollah, alle Guardie della Rivoluzione e alle milizie filo iraniane la libertà di movimento nella regione. In questo disegno acquista centralità strategica la capacità di colpire la maglia siriana. Per costruire una nuova struttura relazionale in Medio Oriente, ovvero tenere più vicini i vicini, è necessario rilanciare la piattaforma degli Accordi di Abramo, nel contesto dei quali è fondamentale da un lato rimettere sui binari della politica la questione della Palestina, insieme a Giordania, Arabia Saudita ed Egitto, dall’altro, considerare, in funzione del nuovo assetto regionale anche la questione curda.

Un’altra guerra: French Theory e The Human Machine Team in Libano

Passato, Futuro, Presente

Il Tsahal, l’esercito che dalla sua fondazione nel 1948 per assolvere la sua missione di tutela del Paese, ha conosciuto solo lo stato di guerra e ha dovuto interiorizzare la sfida strategica per l’esistenza come necessario e, a volte doloroso, processo di apprendimento. Questo processo rompe la logica del tempo lineare ed è basato sul passato, il futuro e il presente. Il passato per capire la genealogia e il quadro raggiunto. Il futuro per scoprire i potenziali rischi e le opportunità del tempo a venire. Il presente per cristallizzare le tendenze dell’azione strategica, evitare i rischi e cercare di soddisfare le opportunità. L’avvento del digitale è il principale fattore che ha dato luogo ai conflitti asimmetrici, nei quali le più forti e più grandi forze militari non necessariamente hanno un vantaggio su quelle minori. In questo contesto, The Human-Machine Team ha il potenziale per far guadagnare un vantaggio. Per cui i pianificatori militari hanno lo scopo di creare l’organizzazione più adattabile, che come prima condizione deve riconosce il cambiamento e la crescente incertezza, e usare la creatività a proprio vantaggio. In questo modo, oggi è possibile impiegare l’Intelligenza artificiale per un possibile “game changer” per vincere una guerra e per prepararci per il prossimo futuro. La guerra per l’esercito è sempre il test supremo, con cui assolve alla sua missione principale di proteggere il paese e vincere la guerra.

Nel passato, fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, anche in Medio Oriente una vittoria o una sconfitta erano di solito chiare. Il vincitore conquistava il territorio del perdente e ognuno sapeva chi aveva vinto e chi aveva perso. Negli ultimi 80 anni ci sono state guerre che sono finite con chiare vittorie, ma ci sono anche state guerre che sono finite senza una chiara sconfitta e la discussione su chi ha vinto e chi ha perso si protrae fino ad oggi. “Dalla prospettiva Israeliana, ci sono guerre come la Guerra dei sei Giorni nel 1967 e la Campagna del Sinai nel 1956, nelle quali Israele sconfisse i nemici e la vittoria fu chiara e netta. Al contrario, ci sono state guerre come lo Yom Kippur del 1973 dove entrambe le parti sono convinte – ancora oggi – che hanno vinto. Negli ultimi 20 anni l’esercito israeliano ha condotto operazioni e guerre con la sensazione delle opportunità perse. Per esempio, nel 2006 la Commissione Winograd ha analizzato in dettaglio come l’IDF perse l’opportunità di sconfiggere Hezbollah e acquisire una decisiva vittoria, e come tutte le operazioni in Gaza negli ultimi 15 anni sono finite senza risultati definitivi. Inoltre, negli ultimi decenni e dalla fine della Guerra Fredda, la maggior parte delle guerre sono state asimmetriche e l’avvento del digitale ha rinforzato queste realtà asimmetriche.”19 

I pianificatori della campagna in Libano hanno dovuto tener conto che durante gli ultimi due decenni, Hezbollah con il supporto dell’Iran, ha gestito il suo riarmo con più o meno un centinaio di migliaia di razzi che possono essere usati contro obiettivi in Israele. E questi razzi hanno sempre più capacità di missili guidati. Hezbollah ha potuto usare la popolazione libanese per rafforzare le sue potenzialità, i combattenti e i razzi sono localizzati strategicamente tra la popolazione e le loro azioni partono dai centri abitati. In questo modo è stato sempre più difficile identificare ed assegnare obiettivi per attaccare i lanciatori di missili con efficacia o usare le forze speciali per prevenire l’uso dei razzi da parte di Hezbollah. In altre parole, è arduo scoprire decine di centinaia di lanciatori che sono nascosti all’interno di città e villaggi, tra i palazzi e case civili. Inoltre, è sempre più complicato attaccare i lanciatori senza danneggiare innumerevoli civili innocenti. Per esempio, nella Seconda Guerra del Libano nel 2006, furono lanciati circa quattro mila razzi da Hezbollah in Israele in un periodo di 33 giorni. Con la guerra in corso, la minaccia è cresciuta drammaticamente. Hezbollah aveva pianificato di tirare migliaia di razzi al giorno contro Israele, inclusi i missili guidati contro le infrastrutture strategiche nel cuore del paese. La linea di fondo è che negli ultimi decenni, e specialmente durante gli ultimi anni, Israele si trova sempre più di fronte a sfide difensive per le quali le capacità tradizionali non sono capaci di sconfiggere completamente il nemico. Quindi, i conflitti asimmetrici si sono conclusi senza vittorie chiare.

French Theory e The Human Machine Team: la nuova“Difesa Profonda”

Per cercare superare questa condizione contrassegnata dalla capacità di sconfiggere il nemico senza ottenere vittorie chiare, la strategia militare sta cercando di far dialogare le teorie dei post strutturalisti francesi con le nuove architetture del Machine learning e i nuovo livelli di interazione umana. Sembra che questa sia la nuova frontiera della strategia militare che, dall’ultima settimana di settembre, si sta dispiegando in Libano. La difesa profonda, secondo le teorizzazioni di Shimon Novak, di Aviv Kochavi e del brigadiere generale YS20 è la capacità delle forze armate di utilizzare The Human-Machine Team in un contesto teorico critico. Il principale potenziale per la guerra è l’abilità di destrutturare la percezione della realtà dell’avversario e creare “obiettivi nel contesto”. La teoria critica, combinata con The Human-Machine Team, ha la capacità di creare decine di migliaia di obiettivi prima che la battaglia inizi e assemblare migliaia di nuovi obiettivi ogni giorno durante una guerra. In aggiunta, le capacità di creare questi obiettivi nel contesto significa che l’esercito può attaccare gli obiettivi giusti al tempo giusto, trovare decine di migliaia di lanciatori di razzi nascosti, comprendendo se sono manovrati dai combattenti o sono autonomi, e quando è preferibile attaccarli per minimizzare i danni civili. Nello scenario in considerazione si possono, secondo YS, individuare 80 mila obiettivi rilevanti che sono prodotti prima del combattimento e 1.500 nuovi obiettivi creati ogni giorno durante la guerra. Le capacità decisive per vincere una guerra richiedono che, ogni giorno, bisogna spingere il nemico in una situazione che è peggiore della situazione che aveva di fronte il giorno prima. Se la situazione del nemico peggiora ogni giorno, vorrà fermare la guerra il prima possibile. Quindi, decine di migliaia di obiettivi nel contesto sono il potenziale per raggiungere questo obiettivo. Durante i decenni trascorsi, la capacità di fuoco è stata molto importante, ma la maggior parte degli obiettivi erano individuati prima della guerra. Ma durante una guerra molti fattori possono cambiare rapidamente e colpire specifici obiettivi in un tempo determinato diventa un’operazione speciale che richiede risorse eccezionali. Avendo la capacità di incrementare il numero degli obiettivi colpiti giorno per giorno e colpire questi obiettivi al tempo voluto, crea nel nemico un forte handicap psicologico. La ricerca di tutti questi obiettivi durante l’azione, affidata solo agli uomini, sarebbe impossibile. Solo The Human-Machine Team – il combinato uomo macchina- ha il potenziale di individuare esponenzialmente gli obiettivi. Un team costituito da macchine e investigatori ha la capacità di gestire i big data, funzione che un cervello umano non può eseguire da solo, anche se molte decisioni devono poi essere prese sulla base dell’istruzione della macchina e del controllo umano. Questo potenziale richiede l’organizzazione di tutti gli strati dell’informazione, in modo che si possa costruire “una macchina degli obiettivi” basata su tutti i dati e sensori in campo. L’altro vantaggio potenziale è usare il The Human-Machine Team per comprendere il cambiamento della realtà del nemico durante la guerra. Come scrisse Carl von Clausewitz: “La guerra è il regno dell’incertezza.” Il grande quadro della guerra e il quadro di ogni singola battaglia, cambiano durante la guerra. Non sappiamo come le forze del nemico si comporteranno durante la guerra o esattamente dove saranno localizzate, sarà sempre difficile trovare i combattenti nemici e comprendere il grande quadro. Ma oggi, Google maps e Waze sono capaci di fornire costantemente, minuto per minuto, grandi fotografie del traffico e incorporare i dettagli di ogni strada. Queste app aiutano gli autisti a prendere decisioni. The Human-Machine Team ha il potenziale per usare l’IA per ottenere un’istantanea del nemico in ogni momento. Questa è la base per creare una specie di Waze militare.

Nel nostro presente, verità e falsità sono mischiate. Lo sviluppo dei media e specialmente dei social media, ha contribuito a modellare questa realtà. Oggi ognuno può essere un tipo di piattaforma dei media con il proprio cellulare. La semplicità del tweet, del postare messaggi e scrivere testi ha influenzato o modellato la lettura di una parte rilevante degli “atti di guerra”. La capacità di costruire un modo di narrare gli eventi ha il potenziale per essere la parte principale della vittoria o della sconfitta. Anche in questo campo, il Machine-learning può aiutare a creare “influenze nel contesto”, che significa che differenti audience e differenti individui possono ricevere dati dai media che hanno le maggiori opportunità di influenzarli. La nozione che “la guerra è il regno dell’incertezza” significa anche che noi non possiamo conoscere dove le nostre forze saranno posizionate e come reagiranno durante la guerra. L’IA ha il potenziale non solo di ottenere una foto istantanea dei nostri nemici, ma anche un’istantanea delle nostre forze in tempo reale per usarla come elemento che aiuta a prendere le decisioni.

La spettacolare sequenza che ha contraddistinto la Guerra a Hezbollah, dall’esplosione simultanea dei cercapersone in poi, ha prodotto il primo cortocircuito della percezione del sicuro e della minaccia e della topografia del protetto e del rischioso.  Per comunicare era diventato sospetto ciò che era ritenuto sicuro. Ciò ha portato alla necessità di muoversi, abbandonando luoghi sicuri e fornire target. La catena di comando di Hezbollah è stata messa sotto pressione. Il vantaggio della presenza e assenza della forza combattente nello spazio complesso, si è trasformato in svantaggio: sono diventati visibili, target acquisibili nel contesto. Ciò ha portato alla decapitazione dell’intera catena di comando. Sfruttando la capacità esponenziale del Machine learning di acquisire obiettivi nel corso del contesto mutato, l’esercito ha ottenuto l’effetto materiale di un parziale degradamento dello stock missilistico e l’effetto psicologico di una perenne visibilità.

Spinta la guerra in questa nuova dimensione asimmetrica, dove contano prioritariamente i combattenti, l’incidente con le postazioni dell’Unifil, deprecabile perché potrebbe aprire crepe tra Israele e gli alleati occidentali, dimostra che gli strumenti e le regole di ingaggio attraverso le quali possono operare queste forze di interposizione furono concepite in un tempo in cui in guerra contava lo spazio piano della geometria euclidea. Lo spazio era piatto e l’obiettivo della guerra era la sua conquista o delimitazione. Oggi l’asimmetria si muove su minaccia e sua rimozione, in una dimensione complessa. In questo quadro, oggettivamente, le postazioni fisse dell’Unifil e l’inerzia dell’esercito Libanese rappresentano un sostegno a Hezbollah. L’Onu e i principali Paesi Occidentali dovrebbero assumere l’iniziativa di verificare se ci sono le condizioni per una riorganizzazione delle regole di ingaggio che permettano alla forza di interposizione di portare a termine la missione per cui è stata dislocata, oppure denunciare le responsabilità. L’immobilismo retorico occidentale e la mancanza di iniziativa politica del governo israeliano potrebbero essere l’elemento che continua a perpetuare il dilemma del Tsahal: essere capace di sconfiggere il nemico, ma incapace di cogliere una vittoria chiara.

  1.  M. Spitzer: Intelligenza artificiale, il Corbaccio, 2024, pag, 257
  2.  Fabio Nicolucci: Israele e il 7 ottobre. Prima/Dopo. Con un’intervista a Yaakov Peri ex Capo dello Shin Bet, Guerini e associati, 2024, pag. 34
  3. Aaliyah (ebr. «ascesa») Termine che ha indicato, dopo la diaspora ebraica, l’immigrazione nei luoghi santi dell’ebraismo a scopi religiosi. Dalla fine del 19° sec. a. indica, nel sionismo, l’immigrazione in Palestina; poi, in Israele, fu codificata come diritto per ogni ebreo dalla cosiddetta «legge del ritorno».
  4. T.Herzl, Der Judenstaat.
  5.  Dario Fabbri, Sotto la pelle del Mondo, 2024, feltrinelli. pag 111
  6. Anna Foa, Il Suicidio di Israele, ed. Laterza, 2024, pag 55
  7. Su queste articolazioni della società israeliana vedere Sergio Della Pergola, Essere ebrei oggi, ed. Il Mulino, 2024
  8. Dario Fabbri, op.cit, pag. 113
  9. Definizione dell’enciclopedia italiana Treccani:  Sabra (o sabre) s. m. e f. e agg. [dall’ebr. mod. ṣabbār, propr. «fico d’India, cactus»], invar. – Ebreo nato in Palestina (o in Israele dopo la costituzione dello Stato d’Israele), così definito con allusione scherz. al suo carattere superficialmente rude ma nel fondo generoso e gentile.
  10.  David Ben Gurion: La sfida di Israele, ed. Castelvecchi, 2018, pag 7-8
  11.  David Ben Gurion, op. cit. pag 8
  12. David Ben Gurion, op. cit, pag 9
  13. Movimento politico-religioso (aral-Ikhwān al-Muslimūn) fondato nel 1928 da Ḥasan al-Bannā’ a Ismailia (al-Ismā‛īliyya), in Egitto, e da qui diffusosi nel mondo arabo. Il movimento, noto anche con il nome di Fratelli musulmani e diventato un punto di riferimento per molte organizzazioni integraliste, teorizzava la nascita di un grande Stato islamico interpretando l’islam come un sistema totalizzante e il Corano quale fonte di ispirazione di tutti gli aspetti della vita civile, politica e religiosa. Presente anche in Libano, Iraq, Giordania, Palestina e soprattutto in Siria.
  14. La sua rete in espansione comprende scuole, istituti di ricerca urbani e centri di addestramento, nonché meccanismi per lo scambio di conoscenze tra diversi eserciti, come conferenze, workshop ed esercitazioni di addestramento congiunte. Nel tentativo di comprendere la vita urbana, i soldati, che sono i professionisti urbani di oggi, seguono corsi accelerati per padroneggiare argomenti come infrastrutture urbane, analisi di sistemi complessi, stabilità strutturale e tecniche di costruzione; fanno anche appello a una varietà di teorie e metodologie prodotte all’interno dell’accademia civile contemporanea. In effetti, gli elenchi di lettura delle istituzioni militari contemporanee includono opere del 1968 circa (con un’enfasi speciale sugli scritti di Deleuze, Guattari, Bataille e Debord), nonché scritti più contemporanei su urbanistica, psicologia, cibernetica e teoria postcoloniale e poststrutturalista . Se gli scrittori che sostengono che lo spazio per la criticità si è in qualche modo esaurito nella cultura capitalista di fine Novecento hanno ragione, sembra sicuramente aver trovato un posto dove prosperare nell’esercito. Inoltre, secondo il teorico urbano Simon Marvin, il “mondo ombra” militare-architettonico sta attualmente generando programmi di ricerca urbana più intensi e ben finanziati di tutti i programmi universitari messi insieme. In termini non incerti, l’istruzione nelle discipline umanistiche, spesso ritenuta l’arma più potente contro l’imperialismo, viene appropriata come una potente arma dell’imperialismo . La base pratica e teorica della guerra urbana emerse dal colonialismo del diciannovesimo secolo, con il Nord Africa francese, in particolare, visto come un laboratorio per innovazioni nel campo della governance e del controllo. Il generale francese Thomas Bugeaud scrisse il primo manuale di guerra urbana, “La Guerre des Rues et des Maisons”, nel 1849, un anno dopo il ritorno da Algeri, dove comandava la forza di spedizione francese, e in risposta ai disordini di Parigi del 1848. Ad Algeri, Bugeaud praticò brutalmente la “controinsurrezione” attraverso la riorganizzazione delle città e delle campagne coloniali tramite atti di distruzione (radendo villaggi e ampliando le strade cittadine) e costruzione (costruendo mercati, basi militari, insediamenti civili) per soddisfare le sue esigenze di controllo. Nel suo libro, Bugeaud ideò metodi simili di repressione attraverso la progettazione, da attuare tramite la battaglia o in previsione di essa, in risposta alle lotte di classe della Parigi dell’epoca della Rivoluzione industriale.
  15. ll’intelligence militare (Aman) dal novembre 2010 al settembre 2014, dal 15 gennaio 2019 al 16 gennaio 2023 ha ricoperto la carica di capo di stato maggiore delle Forze di difesa israeliane.
  16. Per schema frattale qui va inteso uno schema -speculare alla figura geometrica- che si ripete all’infinito uguale a se stessa su una scala sempre più piccola. Questo significa che una parte qualsiasi dello schema frattale riproduce alla sua scala lo schema nella sua totalità e in tutti i dettagli.
  17.  Cecilia Sala, Il Foglio, Sabato 5 e domenica 6 ottobre 2024
  18. Dario Fabbri, Op cit, pag 123-24
  19. Brigadier Generale Y. S: The Human Machine Team. How to Create Synergy Between Human & Artificial Intelligence That Will Revolutionize Our Word. eBookPro Publishing. www.ebook.com. pag 45-46
  20. YS sono le iniziali del nome del Brigadiere Generale ancora attivo nei servizi di Sicurezza Israeliani per questo evitiamo di pubblicare per esteso il suo nome

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