Capitalismo, conflitto e società aperta
Nota a margine di una conferenza di Alexandre Kojève tenuta a Dusseldorf il 16 gennaio 1957 dal titolo: ‘Il colonialismo in una prospettiva europea’, ora disponibile in ‘Il silenzio della Tirannide’, Adelphi, 2004
di Dario Ditalia
Per definire la nuova forma economica che si stava manifestando nel mondo nel XIX secolo, fu coniata la parola Capitalismo. Marx, il più acuto osservatore della potenza della nuova forma del sistema economico e della capacità di assoggettare alle sue leggi le forme sociali e l’intero spazio planetario, definì il capitalismo come un sistema economico basato su tre caratteristiche principali: alta diffusione dell’industrializzazione, come modalità di produzione in serie di prodotti da destinare al mercato; mezzi di produzione industriale appartenenti ad una esigua minoranza della popolazione che non lavora manualmente, ma comanda la produzione, orienta e dirige la vita economica, politica e culturale del Paese; sistema di produzione industriale capitalistico ad alta intensità di occupazione di lavoratori manuali – forza lavoro – che non si avvantaggia assolutamente dell’incremento della produzione dovuta al tempo impiegato e al progresso tecnico.
Il progresso tecnico organizzativo produce costantemente un incremento di prodotto, produttività, il plusvalore che non viene destinato alla forza lavoro, che è invece, interamente trattenuto dai proprietari dei mezzi di produzione, dai capitalisti. La massa di capitale prodotta dall’estrazione di questo plusvalore sottratto al lavoro vivo costituisce il saggio di profitto, alimenta il ciclo del reimpiego del capitale in cerca di nuovo plusvalore da estrarre dal lavoro.
Nonostante il progresso tecnico organizzativo garantisse un continuo surplus del valore prodotto, questo nel sistema capitalistico non veniva distribuito alla maggioranza della forza lavoro, la cui remunerazione veniva mantenuta al livello minimo, ossia la soglia necessaria per garantire la mera riproduzione sociale della forza lavoro necessaria al ciclo dell’occupazione. Così la maggioranza della popolazione veniva tenuta schiacciata sulla soglia minima di sopravvivenza, mentre la esigua minoranza, che aveva già ampiamente raggiunto i livelli di vita ottimale e quindi non necessitava di ulteriori risorse per la propria auto-riproduzione, accumulava il plusvalore prodotto. Il plusvalore prodotto non aveva quindi una funzione di interazione con i livelli di vita della forza lavoro, ma nemmeno, in ultima analisi, con la classe dei capitalisti. Solo una parte insignificante del plusvalore prodotto veniva destinata dai capitalisti per il consumo. Il plusvalore prodotto era quasi interamente destinato all’investimento, per espandere e migliorare la produzione di plusvalore. L’anima della nuova forma economica era quindi costituita dal denaro che produce denaro.
Nel sistema capitalistico analizzato da Marx, la forza lavoro schiacciata verso il basso sulla soglia della propria sussistenza e auto-riproduzione, sebbene non si impoverisse ulteriormente in assoluto, vedeva progressivamente crescere la propria povertà relativa in rapporto all’acuirsi della differenza tra reddito globale delle masse e reddito globale della élite capitalista. Il continuo incremento dello squilibrio sociale, secondo i marxisti, avrebbe portato, oltre ad una inevitabile caduta del saggio tendenziale di profitto, ad una inevitabile crisi sistemica e crollo del capitalismo attraverso quella che veniva definita rivoluzione sociale.
Conflitto e riforme
Secondo Alexandre Kojève, sulla ineluttabilità della rivoluzione «Marx si è sbagliato nelle sue previsioni non già perché avesse torto dal punto di vista teorico, ma perché aveva ragione». Si è sbagliato perché è proprio nei Paesi dal capitalismo più sviluppato, nel senso dell’analisi marxista, che la rivoluzione sociale non si è verificata. Pertanto l’errore di Marx non consiste nell’analisi del capitalismo del suo tempo, che era quello da lui descritto, bensì perché il capitalismo ha corretto le sue contraddizioni interne mettendosi nella prospettiva indicata da Marx stesso, non sotto la presunta ‘dittatura del proletariato’, ma nell’ambito del conflitto democratico. L’errore di Marx e dei marxisti sarebbe stato quindi quello di credere che i capitalisti avrebbero seguito i consigli degli economisti e degli intellettuali borghesi anti marxisti che a loro volta credevano di aver confutato le analisi marxiste con le loro tesi. In effetti i capitalisti hanno sostenuto e finanziato, e anche letto, le tesi anti-marxiste, ma a contatto con le dinamiche della realtà )il conflitto con la forza lavoro e le innovazioni tecnico-organizzative) quegli stessi capitalisti non hanno esitato a trasformare il loro capitalismo in accordo con la teoria marxista, senza preoccuparsi del fatto che in genere si credeva che il marxismo fosse stato teoricamente confutato.
Sulla questione nodale dell’appropriazione esclusiva del plusvalore da parte del capitale e del conseguente acuirsi dello squilibrio sociale, che porta il capitalismo verso la sua rovina e il trionfo della rivoluzione sociale come Marx aveva analizzato, i capitalisti capirono, anche sotto la spinta conflittuale della crescente sindacalizzazione e organizzazione politica della forza lavoro, che il capitalismo nella sua fase di produzione di massa non sarebbe sopravvissuto, se non attraverso una qualche forma di suddivisione del plusvalore prodotto. Con l’affermazione della produzione di massa era assolutamente necessaria alla sopravvivenza del sistema un permanente incremento del reddito del lavoro per garantire un determinato potere d’acquisto e persino un progressivo innalzamento del livello di vita della forza lavoro.
Il reimpiego costante del plusvalore prodotto spinse il sistema produttivo verso l’ingegnerizzazione del sapere scientifico nella sua forma tecnologica, portando il capitalismo ad uno stadio di produzione di massa sempre più razionalizzata. In questa nuova fase, per il mantenimento e l’ulteriore sviluppo del sistema, i capitalisti furono costretti a misurarsi con la questione della distribuzione del plusvalore che poneva due questioni, entrambe esiziali per il sistema stesso. Da una parte depotenziava la minaccia della rivoluzione sociale, dall’altra, con il miglioramento generale delle condizioni materiali delle masse e dei loro livelli di consumo, rigenerava nuovo carburante per l’espansione della produzione, inverando così la questione della caduta tendenziale del saggio di profitto. Il passaggio dal primo capitalismo pre novecentesco a quello della produzione di massa e della catena di montaggio avviene attraverso processi molecolari, diffusi e anonimi. Chi coglie questo ‘spirito del tempo’ è senza dubbio Henry Ford, l’ideologo del nuovo capitalismo: il fordismo. Per questo Kojève non ha remore a definirlo «il solo grande marxista autentico o ortodosso del XX secolo». Nelle società aperte, dove l’allocazione dell’accumulazione non è pianificata da un potere centrale, ma è orientata dall’opportunità di spuntare un saggio di profitto più alto, il sistema si muove in modo più caotico, ma risponde in modo flessibile al conflitto determinato dalla lotta per la quota di plusvalore prodotta da assegnare al lavoro, ossia la parte del reddito del lavoro eccedente il costo di riproduzione. La logica del capitale e quella del lavoro rimangono confliggenti, ma è proprio questa conflittualità il combustibile del motore delle moderne società.
L’accumulazione forzata nel dispositivo totalitario moderno
Nella conferenza, inoltre, Kojève si sofferma su una constatazione da sottolineare. Oggi come nel 1957 varrebbe la pena di riflettere sul fatto che «il capitalismo descritto e criticato da Marx […] per creare i capitali necessari agli investimenti […] deve mantenere artificiosamente il reddito delle masse lavoratrici al livello di sussistenza.» Ebbene questo capitalismo classico oggi non esiste in nessun Paese altamente industrializzato. Mentre prospera nei regimi totalitari e autocratici che governano l’accumulazione del capitale e la sua allocazione secondo le ferree leggi della pianificazione. L’accumulazione forzata come principio guida delle modernizzazioni autoritarie ha usato le leggi bronzee del primo capitalismo per concentrare la massima estrazione di plusvalore dal lavoro vivo, sia per garantire l’accumulazione primaria, sia lo sviluppo dell’industria di base, come avvenne nella Germania Guglielmina tra l’Ottocento e il Novecento o come successe per l’industrializzazione forzata dell’Unione Sovietica sotto Stalin. La stessa cosa accadde per la modernizzazione del Giappone imperiale e per il riarmo del Terzo Reich, nella prima metà del novecento, e come ancora oggi avviene nelle attuali vie autoritarie alla modernizzazione della Cina, Russia, Iran, Corea del Nord, ecc. Tutti questi esperimenti sono segnati da uno sviluppo industriale a servizio di politiche di potenza, che vanno a determinare quell’apparato che viene definito il ‘complesso militare industriale’ che costituisce il nucleo delle moderne autocrazie, basato sulla instaurazione di politiche di militarizzazione sociale per il controllo e l’espropriazione del plusvalore del lavoro e delle altre forme di produzione di ricchezza sociale, con forme sempre più penetranti di controllo e repressione di ogni forma di dissenso. Estrazione del plusvalore e controllo sociale. Questo è quello che viene pianificato ed attuato attraverso un apparato di controllo repressivo fisico e digitale nel più grande Paese governato da un Partito comunista: la Cina. Questo è quello che quotidianamente pratica l’altra autocrazia erede del primo Paese socialista: la Russia. Le stesse pratiche si diffondono nei regimi retti da autocrazie nazional-militariste. Ed è qui che si manifestano i sintomi del primo capitalismo europeo dell’Ottocento da un lato repressione poliziesca e militarista e dall’altro tentativi di costruzione di movimenti sociali aperti a scoppi rivoluzionari.
Bisogna guardare, ancora, ad est per scrutare la rivoluzione.