Cento anni: PCd’I – PCI, solo un anniversario?

Premessa

A 100 anni dalla nascita-fondazione (i due termini vanno tenuti insieme a partire dalla considerazione che i partiti politici, intesi come partiti di massa, che successivamente chiameremo “le macchine politiche del Novecento”, sono organismi sociali vivi, nei quali non vi è solo la storia dei capi o dei gruppi dirigenti, ma una storia sociale diffusa), a cento anni da quell’inizio, si diceva, non ci proponiamo di tentare una storia dell’organizzazione comunista in Italia.

Questa premessa è doverosa in quanto una storia del PCd’I – PCI è stata già raccontata autorevolmente da altri.  Altri, ancora, vi hanno riflettuto come protagonisti e/o testimoni apportando le intenzionalità e i punti di vista sulle scelte e i fatti che hanno scandito l’esperienza del progetto comunista nella Storia d’Italia del Novecento. Vorremmo anche evitare di tentare una ricostruzione del comunismo in Italia (PCd’I e del PCI) ossessionati dall’attualità, semmai preoccupati di rintracciare già agli albori gli incunaboli o i ritardi della vocazione nazionale, riformista – gradualista – democratica di quella che sarà la formazione politica più originale della storia politica del Novecento italiano. Ciò, sia per esaltarne l’originale impulso al compimento del progetto risorgimentale con la costruzione del sistema costituzionale repubblicano e democratico, sia per marcare i limiti che la separazione dal grande ceppo socialista e riformista avrebbe imposto allo sviluppo di una più compiuta liberal-democrazia e di una società aperta, capace di costruire una maggiore uguaglianza nella distribuzione dei redditi e delle opportunità, di affrontare le sfide offerte dalle varie fasi delle ristrutturazioni del capitale e delle modernizzazioni.

Il nostro vuol essere, pertanto, un tentativo di focalizzare alcuni passaggi e i contesti che fecero sorgere quelle domande. 

Perché quei protagonisti si posero quelle domande?

Le domande cruciali

Il secolo dell’acciaio inaugura il tempo apocalittico e quello dell’irruzione messianica. Celebra la fine di un mondo, l’Ottocento, e l’avvento del secolo dei titani. Il movimento socialista è il soggetto dove in modo più incisivo si scandisce questa trasmutazione del tempo. Le sue strutture organizzative rappresentano il livello politico-organizzativo più avanzato della società proto-industriale dell’Ottocento. Il suo modello in Leghe, Cooperative, ceto amministrativo municipale, prevalenza degli aderenti e delle organizzazioni delle campagne del Centro-Nord, in altre parole, l’orizzontalità organizzativa, risponde alle esigenze di una società proto-industriale immersa nei rapporti sociali caratterizzati dall’azione delle moltitudini e non ancora dalle masse. Il tempo nuovo, il tempo apocalittico forgiato dal carnaio della guerra, dai bagliori dell’alto forno, dall’organizzazione razionale della fabbrica meccanica, mette in forma nuovi soggetti: l’operaio e il soldato.

Questo paradigma ci aiuta a focalizzare una prima questione: il ’21 non è una scissione, ma una metamorfosi. Quello che resta al Teatro Goldoni è la storia del movimento socialista dell’Italia rurale pre e proto-capitalista, destinata a sfarinarsi sotto i colpi della reazione fascista; quello che si trasferisce al Teatro San Marco è il movimento operaio del ‘900.

La seconda questione che intendiamo focalizzare è la forza messianica del mito. Il tempo apocalittico, la fine traumatica di un mondo, l’emergere di nuove forze vitali forgiate dalla brutalità dei rapporti di classe rivendicano la necessità di dare nuova forma alla lotta per il potere, una forma e una speranza illuminate dai bagliori di un nuovo mito politico: la rivoluzione proletaria russa. La formazione politica che germina nel ’21, dal corpo ottocentesco del movimento socialista ha per programma il compito di far camminare il mito sulle gambe del progetto politico: “fare come in Russia”.

Altro elemento che si intende focalizzare è che cosa era successo in Russia. Rivoluzione! Insurrezione o colpo di Stato? O una sapiente gestione politico militare dell’elemento insurrezionale e del Colpo di Stato? Cosa era stato l’azzardo bolscevico di “tutto il potere ai soviet”. Cos’era la falange bolscevica del PCb che aveva governato il processo rivoluzionario culminato nell’insurrezione e il colpo di stato, e successivamente diretto vittoriosamente la guerra civile? Quale fu la lezione teorico-politico che il movimento l’internazionale comunista intendeva trarre da quell’esperienza? Come tradussero quel fatto politico militare le sezioni nazionali dell’internazionale comunista? Cosa succede in Germania, Ungheria e successivamente in Spagna? Perché i tentativi insurrezionali vengono regolarmente liquidati?

Tutte domande che s’inseriscono nel nuovo quadro geopolitico nel quale si afferma l’Internazionale Comunista e il nesso tra la “politica dei grandi spazi”- per meglio dire – gli imperativi territoriali Russi e ora Sovietici e gli interessi del movimento comunista internazionale nelle piattaforme dell’Internazionale Comunista.

Quello che vorremmo proporre è, quindi, la rivisitazione di alcuni passaggi problematici collocandoli in un contesto determinato dall’interazione tra tre ambiti sistemici: a) quello dell’economia e della morfologia sociale: il capitale al tempo della tecnologia, dei materiali e dei consumi, e la formazione, composizione e scomposizione delle figure sociali a partire dall’operaio e dal soldato; b) quello sistemico istituzionale in riferimento all’attrezzatura delle strutture dello Stato e della politica attraverso le “macchine politiche e le macchine istituzionali del novecento” – i partiti di massa, le grandi burocrazie statali, i sistemi di sorveglianza e controllo -; c) quello spaziale del quadro geopolitico. Cercando di analizzare le interazioni e le reciproche autonomie attraverso le quali si dipanano gli avvenimenti.

Il Ventuno tra Apocalissi e messianismo

Il ‘900 si era aperto sull’onda dell’euforia del progresso spinto dalla rivoluzione tecnico-scientifica, ma nel breve volgere di due decenni il mondo fu precipitato nell’apocalissi della guerra, della malattia e della miseria. Nel cupo scenario di questa apocalissi balenavano anche i lampi messianici del riscatto dei diseredati,

il mito del riscatto degli ultimi, degli umiliati, degli sfruttati sul lavoro, dalle fonderie e alla moderna industria meccanica, dalle miniere e alle campagne, protagonisti nel grande mattatoio della guerra di trincea, della mitragliatrice e dei gas venefici. Diseredati che vivono negli agglomerati periferici malsani, esposti senza alcuna difesa al flagello della “spagnola”, sopportavano la durezza della condizione di classe, che per la prima volta si era incarnata nella storia. La rivoluzione proletaria sovietica fu l’irruzione benjaminiana del miracolo nella storia e il mito inizia a camminare sulle gambe del progetto politico.

C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, e le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può̀ più̀ chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine cresce davanti a lui al cielo. Ciò̀ che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.”[1]

La Grande Guerra e il nuovo ordine geopolitico del mondo

La Prima Guerra Mondiale non si pone in continuità con la storia della guerra in Occidente. La rivoluzione tecnico scientifica, le prime grandi applicazioni di ingegnerizzazione della scienza, introducono potenti modificazioni nei processi di “civilizzazione”. Lo scarto tra il prima e il dopo sarà imponente: nella geopolitica – tramonto degli imperi, affermazione degli stati nazionali e concentrazionisti -; nella morfologia sociale – le nuove composizioni di classe e del capitale, l’emersione delle masse e la nuova figura politica dell’operaio, dalla rendita al profitto d’impresa -, la nascita del secolo dell’acciaio con la fonderia e l’industria meccanica. Ma anche la rivoluzione dei commerci, dei mercati e della guerra; la ferrovia, la nave a vapore, le celle frigorifero per il grande commercio internazionale; il telefono[2]; la mitragliatrice, la “corazzata”. Nell’arte e nella cultura si affermano le nuove forme dell’opera d’arte nella pittura e nell’architettura; il cinematografo come nuova forma di espressione artistica d’avanguardia; nelle istituzioni avanzano le modernizzazione e il rafforzamento degli apparati burocratici pubblici, l’espansione e l’invadenza della macchina burocratica dello Stato nella vita degli individui; muta l’organizzazione delle forme di partecipazione politica e delle “macchine politiche”: i nuovi partiti distruggono e sostituiscono le vecchie reti di interessi e clientele che innervavano il vecchio sistema politico.

La Costruzione delle macchine politiche del Novecento. Dal modello Socialdemocratico al modello Leninista

L’archetipo delle nuove macchine politiche del Novecento è sicuramente il tipo di Partito Socialista e/o Socialdemocratico così come era venuto configurandosi nell’ultimo quarto dell’Ottocento. Il modello di organizzazione con soci aderenti al progetto socialista-socialdemocratico come prototipo del partito politico di massa, non si configura ancora come “pura” macchina politica, piuttosto esso è una struttura complessa dove convivono una pluralità di strutture mutualistiche, sindacali, pedagogiche-culturali, ricreative e quelle propriamente politiche con strutturazione più orizzontale che verticale. La struttura si adatta ad una gestione dello scontro sociale in chiave processuale e graduale di una lettura dell’evoluzione della lotta di classe letta in chiave deterministica meccanicistica. Il tempo apocalittico-messianico instauratosi con la Grande Guerra e i suoi lasciti rivela tutte le debolezze di quelle forme organizzative, non più adatte in questo nuova versione dello scontro sociale improntato all’organizzazione militare dell’azione e alla verticalizzazione dell’organizzazione. Il nuovo tempo irrompe prepotentemente nell’organizzazione politica. La volontà e l’azione impregneranno il nuovo tempo apocalittico-messianico. Di fronte all’immane spettacolo della morte la vita accelera ansiosa di costruire un nuovo orizzonte sulle macerie del vecchio mondo incenerito dalla Guerra, dalla malattia, dalla morte. In tutti i campi della vita irrompe l’urgenza di nuovi ordini. L’irrompere delle masse sulla scena della storia con la guerra dei materiali, le trincee e la fabbrica diventano le nuove polarità dall’azione politica. La incomprensione del Partito Socialista sulla maturazione dei nuovi tempi può essere sintetizzata con il suo approccio alla guerra: “né aderire, né sabotare”, ovvero l’incapacità di scegliere tra la linea interventista, che pure era presente al suo interno, e la linea pacifista – cosa che invece rivendicò con successo il partito bolscevico russo su impulso di Lenin – impedisce a quel partito una più incisiva azione politica nel dopoguerra, sia sul versante dell’organizzazione del malessere dei reduci e delle loro aspettative tradite, sia verso quei settori che avevano pagato il prezzo più alto nello sforzo bellico. L’organizzazione socialista rispondeva in modo adeguato alla forma proto-industriale dell’Italia della fine dell’ottocento e del primissimo novecento, il cui panorama era dominato dai rapporti agrari che nelle aree più avanzate producevano bracciantato, dall’industria di trasformazione, soprattutto tessile e dall’organizzazione dei mestieri, il sistema delle leghe, cooperative, la rete degli amministratori rispondeva a queste esigenze ma non fu in grado di confrontarsi con l’urto della guerra e dell’industria pesante che produsse le prime forme di proletariato urbano di massa. Il limite del partito socialista fu di non saper prevedere la necessità di forme come quelle che successivamente Gramsci individuerà come il moderno Principe: il nuovo partito è un organismo “vivente”, in cui l’ideologia politica e la scienza politica si fondono nella forma drammatica del “mito”.

Giuseppe Turati previde il futuro, ma non vide il presente

È interessante ricordare l’intervento di Turati al teatro Goldoni … “Potrei chiamarla profezia …Fra qualche anno voi constaterete se la profezia si sia avverata. Se avrò fallito, sarete voi i trionfatori…Ond’è, che quand’anche voi avrete impiantato il partito comunista o organizzati i Soviet in Italia, se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocata e se vorrete fare qualcosa che sia veramente rivoluzionario, qualcosa che rimanga come elemento di società nuova, voi sarete forzati, a vostro dispetto – ma lo farete con convinzione, perché siete onesti – a ripercorrere completamente la nostra via, … e dovrete farlo perché è la via del socialismo…. “[3]

”…il bolscevismo farà fallimento, che esso sin d’ora non è se non (nazionalismo russo che si aggrappa a noi disperatamente per salvare sé stesso) … avrà anch’esso la sua grande funzione nella storia del mondo, aprirà l’Oriente alla vita civile e chiamerà la Cina, il Giappone, l’Asia Minore …Ma non si può sostituire, né distruggere, né imporre all’Internazionale maggiore dei popoli più evoluti nel cammino della storia”. [4]  Certamente Turati si espresse con grande lungimiranza dal palco del Teatro Goldoni, ma tutto quello che seppe prevedere nel lungo periodo gli mancò sul terreno dell’azione politica concreta. Rimaneva ancora immerso nell’Italia dell’Ottocento delle Leghe, della mutualità, dei municipi, della manovra politica ed istituzionale. Era una posizione attendista, più che gradualista. Non vedeva l’insorgenza del nuovo, l’urgenza del tempo, il farsi avanti di nuovi soggetti. Il suo principale problema non erano i comunisti. Era il Partito socialista, macchina ormai inadeguata al tempo nuovo. Che surrogava con il massimalismo delle parole d’ordine la sua incapacità di direzione politica e gestione dello scontro. Scambiò per avversari i fanti mobilitati per la guerra. “Non aderire né sabotare” rappresenta la cifra politica dell’indecisione politica al tempo della decisione.

La Rivoluzione Russa e il movimento comunista internazionale

La conclusione della Prima Guerra Mondiale si ha nell’autunno del 1918, anche se in molta parte del continente si prolungherà in varie forme: guerra civile o insurrezioni fino al 1922. Il quadro geopolitico e soggetto ad acute tensioni. Si avviano le prime forme di organismi sovranazionali con lo scopo di cercare di imbrigliare le politiche di potenza sia degli imperi coloniali, sia degli Stati nazione che avevano appena determinato nel cuore dell’Europa lo sgretolamento di quattro imperi e la fine del mondo pre-industriale. Di questi almeno uno rinascerà sotto nuove vesti. A Mosca il 2 marzo 1919 nell’ambito della Conferenza internazionale Comunista, presenti 52 delegati, viene costituita l’Internazionale Comunista, con l’obiettivo di sostenere l’Unione Sovietica e la rivoluzione comunista mondiale. In quello che sarà il “campo occidentale” le potenze vittoriose, alla Conferenza di Pace di Parigi, il 28 giugno 1919, sulla base dei 14 punti di Wilson, daranno vita alla Società delle Nazioni, dalla quale resteranno fuori gli Stati Uniti, per la mancata ratifica, la Germania considerata responsabile della guerra e la Russia. Intanto una nutrita coalizione di potenze – Regno Unito, Francia, Stati Uniti, Giappone, Italia, appoggia le armate bianche nella guerra civile.

In questo contesto il Secondo Congresso del Comintern, del luglio agosto 1920, tra Pietrogrado e Mosca con i suoi 21 punti, insieme al Congresso delle popolazioni orientali di Baku del settembre 1920, rappresentano il manifesto politico programmatico della rivoluzione comunista. Il clima di fiducia per la crescita dei movimenti di massa in Europa e negli Stati Uniti, unitamente alla ripresa dell’offensiva dell’Armata Rossa sia verso Occidente contro le forze polacche di Pilsudski, sia nel Caucaso contro Denikin, si riflette sulla strategia che l’Internazionale sotto la guida del PCb adotta per il movimento internazionale, basata sul precipitare della fase rivoluzionaria in Occidente e dei movimenti di liberazione in Oriente. Ci sembra interessante sottolineare una delle voci critiche di Baku, Narboutabekof: “Compagni … le masse lavoratrici del Turkestan devono combattere su due fronti; contro i mullah reazionari, e contro le tendenze nazionaliste degli Europei” … Ciò che Lenin chiamava “il grande sciovinismo russo non era mai morto” …”[5] Una spia sintomatica del sovrapporsi dei diversi piani nell’azione concreta: le regolarità geopolitiche e il rapporto dell’ideologia con le autonomie. In questa luce un ulteriore approfondimento meriterebbe l’analisi del rapporto tra la visione geopolitica dei grandi spazi secondo l’approccio “grande russo”, il consolidamento del potere sovietico in Russia e il giudizio sulla fase politica globale: le autonomie con le quali i gruppi dirigenti dei partiti comunisti delle varie sezioni nazionali potevano leggere la loro realtà e contribuire ad elaborare la piattaforma comune, da un lato, e il comando e gli interessi del gruppo centrale del partito bolscevico, dall’altro.

La motivazione della separazione dal troncone riformista e massimalista del movimento socialista italiano per “fare come in Russia” avrebbe meritato un’attenta riflessione politico-militare sulla situazione italiana, cosa del tutto assente nella riflessione del PCd’I di quegli anni, sebbene la struttura di direzione della formazione politica prevedeva la responsabilità del lavoro illegale e la costruzione di una struttura parallela organizzata per manipoli (raggruppamenti civili in squadre di 10) che fanno capo ai fiduciari di sezione, di zona e di federazione. La struttura si basa soprattutto sulla Federazione giovanile. L’impressione che ci troviamo di fronte più ad una organizzazione di autodifesa che ad una macchina offensiva. Si discute e ci si organizza in vista più di un imminente crollo di sistema che dell’avvio di una fase insurrezionale, con una precisa strategia di presa del potere.

Astrattismo ideologico e il gruppo dirigente Italiano dal ’21 al 24

La nascita del PCd’I fu una necessità del ‘900: adeguare la macchina politica del movimento operaio al tempo nuovo. Altrettanto necessaria per il tempo nuovo doveva essere la piattaforma ideologico-politica della nuova formazione: la sfida era come tradurre il mito politico, annunciato nel ’17 in concreta azione rivoluzionaria. “Fare come in Russia”, il mito politico che legittimava la nascita del nuovo partito, restò purtroppo una pura opzione ideologica legata alla teoria del crollo. Né l’Internazionale comunista, né il Gruppo dirigente italiano riescono ad analizzare con sufficiente capacità lo sviluppo della fase rivoluzionaria in Russia costituita dalle fasi insurrezionali e dal” Colpo di Stato”.  L’Italia dell’immediato dopoguerra era sicuramente il paese dell’Europa occidentale che per condizioni sociali somigliava maggiormente alla Russia. Nuclei operai nei centri urbani delle grandi città del nord, concentrati nel tessile e nella nascente industria meccanica, sviluppata anche a causa delle commesse di guerra; un Mezzogiorno arretrato con le campagne ancora in mano ad un latifondo assenteista, governate da patti agrari vetusti; plebi urbane che avevano fornito la carne da trincea. Nel corso del ‘900 tutte le rivoluzioni socialiste vittoriose sono state costruite con un sapiente impiego della strategia militare o della tecnica del colpo di Stato o dal politico miscelamento dei due elementi. Lo stesso tema dell’unità antifascista viene visto nell’ottica delle classiche alleanze sociali intermediate dai partiti e non come capacità di unire nel fronte le due figure centrali, emerse dalla guerra di trincea e dalla vita civile durante la guerra stessa: gli operai/operaie dell’industria dello sforzo bellico e i reduci o smobilitati – operai e contadini – che avevano cementato una nuova identità nella vita della trincea. La necessità di mettere al centro dell’iniziativa politica il nuovo proletario temprato dalla guerra rimane estraneo alla riflessione sia a livello dell’Internazionale che a livello nazionale.  “Noi avevamo distrutto con le nostre mani, soffocato nella culla, in sostanza quel movimento che esprimeva un’istintiva volontà di lotta, di unità antifascista, la fiducia di arrestare uniti l’avanzata delle squadre fasciste”[6]( Francesco Leone comunista organizzatore degli Arditi del popolo di Vercelli). L’errore politico del PCd’I viene sottolineato dalla risposta dell’Internazionale alla lettera dl 7 novembre del 1921 di Grieco: “il PCI doveva penetrare subito energicamente nel movimento degli Arditi, fare schierare intorno a sé gli operai e in tal modo convertire in simpatizzanti gli elementi piccolo borghesi, denunciare gli avventurieri ed eliminarli dai posti di direzione, porre elementi di fiducia in testa al movimento. … i moti di gennaio 1905 a Pietroburgo furono diretti dal pope Gapon, semi avventuriero, semi spia … Tutto questo non ha impedito ai nostri compagni russi di partecipare energicamente al movimento, di smascherare le spie e di attrarre le masse al partito.”[7] La risposta dell’Internazionale, nella quale si critica la posizione del partito illustrata da Grieco, non propone una riflessione politicamente esaustiva su quello che era successo effettivamente in Russia sia della funzione dei soldati nelle varie fasi insurrezionali e la costruzione dei  legami con i nuclei operai, sia  lo svolgimento strategico di quelle fasi e il ruolo svolto dal “Colpo di Stato” con l’occupazione dei veri centri decisionali: dalla comunicazione come poste, telegrafo, ecc. alle Stazioni ferroviarie, ai centri decisionali.

Da Como a Lione: prove per il partito nazionale

Dal maggio del 1922 al maggio del 1924 Gramsci è tra Mosca e Vienna. Al suo ritorno “al primo contatto che riprende con il quadro di partito al convegno segreto dei segretari di federazione del maggio 1924, egli è alla testa del nuovo gruppo che assume la direzione e qualche mese dopo sarà il Segretario Generale [8]. Un punto di rilievo è posto dalla sottolineatura di Paolo Spriano: “Il punto di principio, tante volte nel frattempo rivendicato da Togliatti, di salvaguardare il partito nato a Livorno come strumento nuovo, autonomo, della classe operaia italiana, egli l’ha condiviso e difeso dinanzi all’attacco combinato di Zinov’ev e Tasca …”[9]. Ormai era chiaro che Livorno rappresentava la necessità della “macchina politica” weberianamente adeguata al nuovo stadio dello Stato nazionale: organizzazione razionale, centralizzazione più l’apparato.  Il tema che comincia ad emergere sono i limiti del “motore della nuova macchina”: il progetto politico. Qui il terreno appare più complesso, stretto tra l’astrattismo dottrinario locale e quello ondivago o troppo condizionato dal punto di vista o dalle convenienze del PCb se non addirittura russo centriche dell’Internazionale. Già nel 1923 cominciava a maturare in Gramsci la convinzione che … “noi dobbiamo dare importanza specialmente alla questione meridionale, cioè alla questione in cui il rapporto tra operai e contadini si pone non solo come  un problema di rapporto di classe, ma anche e specialmente come un problema territoriale, …penso che la parola d’ordine ( governo operaio e contadino) debba essere adattata in Italia così: (Repubblica federale degli operai e contadini) …(per) vedere quali ripercussioni avrà nel paese e negli strati di sinistra dei popolari e dei democratici che rappresentano le tendenze reali della classe contadina e hanno sempre avuto nel loro programma la parola d’ordine dell’autonomia locale e del decentramento … Io credo che il regime dei Soviet, con il suo accentramento politico dato dal Partito comunista e con la sua decentralizzazione amministrativa e la sua colorizzazione delle forze politiche locali, trovi un’ottima preparazione ideologica nella parola d’ordine: Repubblica federale degli operai e contadini.”[10] Alla capanna Mara (Como) … nelle riunioni tenute in bellissime “vallette bianche di narcisi”[11], la sessione del Comitato Centrale allargato ai segretari di federazione e regionali convince definitivamente Gramsci che la rigidità dottrinaria di Bordiga non ha nessuna prospettiva politica. Serve una nuova elaborazione culturale e politica che in parte era già maturata, ora si trattava di darle la veste del progetto politico. Al III Congresso – Lione, gennaio 1926 – la macchina politica viene dotata del nuovo motore. Le tesi muovono dall’analisi della società italiana, la fragilità dell’unificazione, le profonde differenze tra Nord e Sud, la mancanza di una coscienza nazionale, la subalternità e arretratezza del mondo agricolo, il ruolo della Chiesa e la rappresentanza del mondo contadino e il carattere strategico dell’alleanza operai e contadini. Si precisa la critica ai Socialisti e alla Cgdl di aver “cavalcato il tumultuoso processo di crescita della classe operaia senza una prospettiva e con un verbalismo demagogico che mentre evocava continuamente la rivoluzione, non si dotava di alcuno strumento intellettuale e operativo per realizzarla.”[12] Si esplicita La strategia della “guerra di posizione” e il dispiegamento dell’egemonia nell’azione di quello che successivamente si configurerà come il “Moderno Principe”.

Ma per vedere la nascita effettiva del moderno principe, delineato da Gramsci nelle sue “noterelle sulla politica del Machiavelli”[13], bisognerà aspettare il “Partito nuovo” di Togliatti. Dove la “macchina politica del Novecento – centralizzazione più apparato – e la traduzione del “mito politico in programma d’azione saranno l’incarnazione Ideal tipica più riuscita nello strano animale togliattiano: il PCI. Non un ircocervo…più propriamente un Centauro

Il ’44 ripresa o nuovo inizio. Metamorfosi o trasfigurazione

Con le operazioni militari ancora in corso, anche se ormai l’esito della guerra poteva essere sufficientemente prevedibile, Ercoli appena tornato dalla Russia da vita al più consistente esperimento politico che costituirà il “nuovo partito”, che successivamente sarà uno degli architravi della Repubblica. Con la scelta del Governo Badoglio e della collaborazione tra le masse comuniste, socialiste e cattoliche – che anche in seguito rimarrà uno dei tratti più tipici del “Partito nuovo” – Togliatti realizza quello che i Socialisti e Comunisti non vollero, e Turati non seppe o non volle fare nel ’21: costruire un ampio fronte antifascista, intessere un comune terreno di dialogo tra le masse social-comuniste e cattoliche e impiantare nelle nascenti istituzioni della Repubblica il Moderno Principe: il Partito di massa.

Ha ragione Luciano Canfora nel sottolineare come…: “I partiti politici non sono, né possono essere formazioni “eterne, sono organismi viventi, e perciò in costante trasformazione, come del resto le chiese, che però procedono a ritmi di gran lunga più lenti”. Queste macchine politiche … “nei secoli XIX e XX, nell’Europa continentale,…hanno avuto fattezze piuttosto simili, modellate via, via sull’assetto dei partiti socialisti e socialdemocratici. Parliamo di partiti protesi ad organizzare masse più o meno grandi e a fare proselitismo nel nome dell’idealità e dei programmi.”[14]

Ancora sul partito e il partito nuovo: una struttura di quadri – professionisti – in un corpo di massa -proseliti …. Biagio De Giovanni scrive: “Esso prevedeva una pedagogia di massa diffusa nelle più remote sezioni e nelle grandi adunate dove si verificava, …, la presenza forte di un mito politico. Il partito ereditava uno stile totalizzante, carico dello stile della politica degli anni Trenta,” capace di trasmettere alle masse un messaggio democratico, parlamentare ed istituzionale attraverso la traduzione in iniziativa politica dell’idea di una costituzione non realizzata e continuamente da realizzare … “il tutto sostenuto da un fatto inedito nella storia dei partiti italiani, una forte presenza di intellettuali giudicati “organici” con una visione che nella sua generalità nasceva dall’applicazione del principio gramsciano di egemonia. … l’organizzazione di una formidabile direzione del processo politico di massa da parte di una grande aristocrazia politica. … l’innegabile sforzo di civilizzazione di una politica di massa esercitato da una classe dirigente”[15]… in grado di trasmettere messaggi assai semplici.

Il passaggio del ’44 si presenta in forte discontinuità con l’esperienza del PCd’I. Il cambio del nome con lo scioglimento dell’Internazionale comunista non è una semplice decisione maturata nel campo comunista, ma soprattutto un’offerta politica di Stalin agli alleati; il partito comunista non più sezione italiana dell’Internazionale prenderà il nome di Partito Comunista Italiano. La nuova aggettivazione segnerà la sostanza del nuovo soggetto chiamato a sviluppare sul terreno della politica nazionale le teorizzazioni e le intuizioni del Gramsci del carcere. Sul fronte interno e nazionale il nuovo soggetto politico si presenta in rottura con il ‘21 e in parziale continuità con il 1926 e il “moderno Principe” delle “Noterelle sul Machiavelli” dei Quaderni dal carcere ed in questo senso vi è stata sia metamorfosi, sia trasfigurazione. Cambiamento di Forma, Stato, ma anche svelamento.

Sul fronte internazionale la questione appare molto più complessa. Gli alleati ormai consapevoli dell’esito della Guerra stanno delineando il nuovo assetto geopolitico del mondo con le sfere d’influenza delle potenze vittoriose, Togliatti traduce in termini nazionali lo scenario delle alleanze internazionali.

Conclusa la fase della guerra guerreggiata lo scenario geopolitico delineato dalle conferenze degli alleati prende corpo. Si delineano le sfere d’influenza come stabilito nel famoso accordo sulle “percentuali” tra Churchill e Stalin. All’inizio del 1946 il fronte degli alleati va sempre più divaricandosi. L’Europa orientale, liberata dall’Armata Rossa diventerà presto il “campo socialista”, o meglio, dal punto di vista geopolitico, la difesa in profondità del territorio della Russia sovietica da possibili attacchi occidentali. Mai più la cavalleria meccanizzata avrebbe fatto irruzione sul territorio russo.

Prodomi della Guerra Fredda

Così, mentre Stalin a Mosca, il 9 febbraio 1946 tiene un discorso al teatro Bol’ soj nel quale parla della inevitabilità della guerra tra mondo socialista e mondo capitalista, l’Ambasciatore americano George F. Kennan, con il “Lungo Telegramma” descrive al Presidente americano le condizioni di chiusura che si stanno attuando nei Paesi del campo socialista e delle intenzioni espansionistiche sovietiche. Ormai il Fronte degli alleati va rapidamente dissolvendosi per lasciare il campo ai due blocchi.

Il 5 marzo successivo Churchill invitato a parlare al Westminster College di Fulton nel Missouri pronuncia il famoso discorso …: “Da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico una cortina di ferro e scesa attraverso il continente …… non credo che la Russia sovietica desideri la guerra. Ciò che essi desiderano sono i frutti della guerra…”[16]. La Grecia e la Turchia rappresentano due punti di crisi tra l’Unione Sovietica e le potenze occidentali. Stalin mentre preme sulla Turchia per il passaggio negli stretti, lascia alla Jugoslavia il sostegno ai comunisti greci, rispettando in questo modo il “patto delle percentuali”. Il 12 Marzo 1947 Truman davanti alle camere in seduta comune annuncia la sua strategia politica per il contenimento dell’espansionismo sovietico, conosciuta in seguito come “Dottrina Truman”.  Ancora, le incomprensioni sul destino della Germania daranno vita al “blocco di Berlino”, attuato dai sovietici il 24 giugno 1948, che resterà in vigore fino al 12 maggio del 1949, e al ponte aereo realizzato dagli alleati occidentali per rifornire Berlino. L’insistenza sovietica per una Germania demilitarizzata, in ragione del fatto che la Russia era stata invasa per ben due volte da eserciti tedeschi nel giro di trent’anni, determinerà la nascita il 23 maggio 1949 della Repubblica Federale Tedesca e il 7 ottobre 1949 della Repubblica Democratica Tedesca. Il nuovo ordine bipolare vedrà il compimento della sua architettura il 6 maggio del 1955 con la costituzione del Patto di Varsavia.

Con il consolidarsi delle strutture dei blocchi, l’una con a capo la potenza egemone occidentale – gli USA – l’altra, il campione del campo socialista, l’Unione Sovietica, la questione ideologica del confronto-scontro tra mondo capitalista (Mondo libero) e campo socialista trascolorava e veniva sempre più caratterizzandosi come una questione squisitamente geopolitica, che si traduceva nel concetto di difesa avanzata, cioè la cintura dei paesi socialisti dell’Est Europa con le vaste pianure che avevano visto durante la guerra i poderosi scontri delle truppe corazzate, diviene la politica di sicurezza della Russia e lo strumento di pressione per l’accesso ai mari caldi. Da sempre la Russia aveva sofferto la problematicità dell’accesso agli ampi spazi marittimi. Le condizioni fisiche – fondali, temperature – dei mari del Nord, la presenza del bastione inglese, erano un formidabile ostacolo per l’accesso all’Oceano. Con lucidità, infatti, Stalin persegue lo sbocco nei mari caldi a Sud con l’obiettivo del Mediterraneo e la conseguente pressione sulla Turchia. La dottrina Truman e il piamo Marshall (5 giugno 1947) rappresentano la strategia americana del “roll back”.

Di questo nuovo mondo il primo a prenderne atto fu Saragat che l’11 gennaio 1947 fonda il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani a seguito della scissione di Palazzo Barberini, mentre i Socialisti per tagliare il cordone con Mosca dovranno attendere i “fatti d’Ungheria” del ’56.

Nel suo ritorno dall’Unione Sovietica, Togliatti mostra il realismo politico necessario per aprire una nuova fase politica. La sua posizione è del tutto scevra da condizionamenti ideologici o di campo, solo perché gli interessi sovietici e occidentali in quel momento erano collimanti? L’incardinare il partito ad una doppia fedeltà, alla Costituzione repubblicana e alla “scelta di campo”, determina un cortocircuito che peserà sul PCI fino alla fine, almeno fino alla crisi degli euromissili degli anni ‘80. Con l’esito della guerra e la stabilizzazione dei rispettivi campi, che non sono definiti da vaghe assonanze ideali o ideologiche ma strutturate in alleanze militari, era chiaro che nel campo occidentale il tentativo della costruzione del socialismo poteva espletarsi solo garantendo piena garanzia atlantica.

Il compimento del Risorgimento: il partito come primo nucleo della nuova identità nazionale

Con la svolta del ’44 si avvia in un Paese ancora afferrato dalla guerra un grande esperimento politico: la costruzione del moderno principe nel tempo del costituzionalismo e della democrazia di massa. Lo stesso concetto di egemonia può esplicarsi compiutamente in presenza di una nuova macchina politica che risulta dall’assemblaggio di una struttura di “quadri” in una formazione di militanti di massa. È precisamente su questo, a veder bene, che risultano adeguate, per tutti gli anni del dopoguerra, le revisioni portate da Togliatti con il passaggio dal Partito ideologico al partito programmatico, un modo per intensificare un dialogo più aperto con le nuove articolazioni della società, ma soprattutto per aprire un fecondo dialogo con il mondo cattolico di allora, un mondo imponente e solo all’inizio dei processi di secolarizzazione. Nel Partito Nuovo l’ideologia messianica si laicizzava in feconda lezione storicizzata e relativizzata nell’azione politica. L’adesione al Partito nuovo si basava sulla condivisione del suo programma a prescindere dal personale credo filosofico e religioso. Tutto questo rispondeva all’esigenza di dare compimento per molti versi all’elaborazione gramsciana sulla centralità di conciliare il mondo della fabbrica con il mondo della campagna e il ruolo della Chiesa cattolica. Tutto ciò permise che negli anni a venire si potesse aprire un proficuo approfondimento con tutte le articolazioni sociali ed istituzionali ove le differenziate leadership cattoliche operavano. Tutto questa permetteva a Togliatti, al di là delle rispettive collocazioni dei partiti di massa rispetto al governo, di mantenere aperta la possibilità di una ricomposizione delle grandi tradizioni e forze popolari nel governo del Paese.

Alla lucida visione nazionale e alla geniale capacità di assemblare il “Partito nuovo” non si affianca una altrettanto acuta visione del nuovo assetto geopolitico del Mondo. La “scelta di campo” apre una contraddizione insanabile con l’operazione politica organizzativa appena creata. Il pieno dispiegamento delle potenzialità del nuovo soggetto politico potevano avverarsi solo accettando la nuova collocazione geopolitica del Paese. Con lo scioglimento dell’Internazionale – anche questo passo va visto nel contesto geopolitico di uno scambio tra le potenze alleate – l’atteggiamento sovietico si declinava ormai solo in termini di potenza. Era ormai chiaro che il “mito politico” poteva mantenere un riferimento ideale con il “comunismo”, ma doveva rimuovere i riferimenti geopolitici.

Limiti dello storicismo

La nazionalizzazione delle masse, dopo la parentesi demagogica e razzista del fascismo, determina… “Nel corso della ricostruzione e dell’espansione economica post-bellica, una necessità sentita dai principali partiti di massa. Pci e Dc, … intendono nazionalizzare le masse come conquista dell’egemonia su di esse, cui cercano di dare un’identità ‘confessionale’ o ‘dottrinaria’ anziché laica e democratica”[17].

In questa contesa, va sottolineato come “l’enorme contributo dato dal Pci alla storia d’Italia, che ha tanti connotati di fatto socialdemocratici, dalla Costituzione prescrittiva e da Stato sociale alle lotte operaie e contadine, …. all’organizzazione del lavoro intellettuale, si collocava in tutt’altro orizzonte. La ragione non voglio esemplificarla nell’anticapitalismo, e nell’antieuropeismo solo tardi corretto, ma nella modalità della sua interpretazione tra masse e potere, tra masse e politica, tra masse e partito, “[18], afferma de Giovanni. E ancora: “La ‘filosofia’ del partito apparteneva a un altro mondo…i filosofi e gli storici del partito si misuravano con la struttura del mondo presente e futura, veri interpreti di una filosofia della storia e perfino di filosofie della storia in contrasto tra loro”[19].

L’impianto finalistico e organicistico è dunque tutto chiuso nell’orizzonte del mito politico, del compimento della fase risorgimentale di costruzione della nazione e del socialismo.

La polemica politica tra l’animatore del Politecnico e il Segretario del PCI Palmiro Togliatti rappresenta il primo segnale dei limiti che attanagliano il gruppo dirigente del Pci. Non è interessante qui analizzare lo sviluppo della polemica. La questione è che si scontrano una visione finalistica e organizzata dello sviluppo storico contro una cultura delle autonomie aperta alle istanze dei nuovi strumenti di lettura della realtà.

Americanismo e Fordismo[20] – l’Autonomia oltre lo storicismo

“Il punto più alto pur sempre di una rielaborazione del ‘17, tanto alto da poter essere letto oltre (e magari contro), di esso … [è] Americanismo e Fordismo.  Una rappresentazione del capitalismo che superava di un colpo la tesi del suo inarrestabile declino, non però del suo superamento, una diagnosi rivolta a quelli che, tra sofferenze ed errori, stava lavorando per un nuovo mondo,”[21]

Il secondo corno del problema, a questo punto non risolto nella nuova formazione politica, è il terreno e il contesto dello scontro, ben rappresentato da “americanismo e fordismo”. L’analisi del capitalismo, delle crisi, delle autonomie delle strutture, la formazione delle egemonie, lucidi sprazzi di biopolitica, le riflessioni sul controllo sociale sono i temi che avrebbero dislocato il nuovo partito su un terreno inesplorato, oltre la teoria del crollo. Gioca molto nell’incapacità di cogliere i nuovi scenari la trappola della cultura storicistica. Il gruppo dirigente e gli intellettuali di riferimento sono figli di quella formazione. Solo con l’XI congresso si comincerà ad aprire nel PCI una discussione sulla riorganizzazione capitalistica e la composizione di classe con nuovi strumenti come la sociologia e le scienze statistiche e sociali.

Bisognerà attendere gli anni ’60 per avere una discussione sulla fase di ristrutturazione del capitale e la nuova morfologia sociale che la nuova fase dello sviluppo andava producendo. Soltanto a titolo di esempio è utile citare l’esperienza di “Quaderni Rossi”. Mentre il Sindacato mostra una maggiore consapevolezza della nuova fase, nel PCI, anche in presenza di accenti critici da destra e da sinistra, si continua a perseguire il progetto togliattiano dell’incontro tra le masse social-comunista e le masse cattoliche. Enrico Berlinguer e il compromesso tentano di imbrigliare una società che non c’è più. Berlinguer, probabilmente avverte che non è possibile un “nuovo ’44 del PCI” agendo solo sugli aspetti programmatici ma è necessario una rifondazione del “mito politico” – uscire dall’orizzonte del ’17 -. L’operazione si fonda su due pilastri, uno di natura “Katecontica”: l’austerità per trattenere la dissoluzione delle forme sociali, l’emergente individualismo e le nuove forme di nichilismo consumistico; l’altro traeva alimento dai valori etico morali del cattolicesimo e del solidarismo – il compromesso storico -. Ambedue come base morale della ricomposizione unitaria delle masse popolari. L’operazione è destinata al naufragio perché la base morale da cui sono mutuate le politiche non tengono conto delle antropologie in campo – la natura ferita dell’uomo – e pertanto si risolvono in proposte moralistiche e per alcuni versi proto-populiste, come quelle di “mani pulite”. I processi di crescita civile, le nuove autonomie che si affermano nel sociale sfuggono alla comprensione del Partito. L’accentuazione etico morale dell’ultimo Berlinguer rappresenta, almeno nella politica interna, una cesura con il realismo politico proprio dell’imprinting togliattiano.

La Regina Rossa[22]

“… Il mondo sta cambiando ad una velocità impensabile e il Pci non può stare indietro … Il Pci vive il paradosso di far continui passi in avanti in una realtà che procede ancor più celermente … la sera del 9 novembre 1989 cade il muro di Berlino e il Pci arriva un minuto dopo, nonostante alle spalle vi sia un lungo cammino che gli avrebbe consentito di arrivare prima.”[23]. Chiara la sensazione di uno dei protagonisti di quei giorni che la partita con “il qui ed ora” della politica è persa. Le legge della Regina rossa è inesorabile: non è importante la velocità con cui ti muovi è importante la tua velocità relativa. E quel Pci era incapace di muoversi. Alla fine degli anni ’80 erano venuti al pettine una serie di nodi non sciolti. Sarebbe interessante focalizzarne almeno due. Il Pci si scioglie perché finisce il ‘900 o il Pci si scioglie perché crolla l’Unione Sovietica? Il primo riguarda la morfologia della “macchina politica”, il partito di massa – l’ircocervo togliattiano – nato come specifica forma politica del Novecento e delle sue forme (le masse, le classi, la fabbrica, la catena di montaggio, ecc.) incapace ormai di imbrigliare la società delle autonomie, sempre più spinte verso la forma liquida.

Lo scatenamento dell’Io, rotte le catene religiose e ideologiche del Noi non ha trovato più “un nuovo mito politico” articolato in un orizzonte programmatico che ricostruisse le catene di senso e di solidarietà nella nuova fase della globalizzazione. La seconda questione attiene al “mito politico” e ai suoi intrecci con il ’17 e le sue declinazioni “nazionali”. Per un secolo ’17 e “comunismo” non sono state solo sinonimi ma hanno identificato l’uguaglianza. Ma il ’17 è trasfigurazione[24] del comunismo o una sua epifania politica? Su questo secondo corollario sarebbe opportuno scandagliare se i nodi non sciolti rimandano all’incapacità di andare oltre il ’17 in termini geopolitici e morfologici o se essi riguardano il terreno della democrazia: il rapporto io-noi, come sottolinea de Giovanni.

Ancora un corollario: l’ansia del tempo e la necessità di cambiare nome non segna una separazione dal ’17, dal “comunismo realizzato” ma una sua intima appartenenza.

Canfora vede un’analogia di lunga durata tra “eresia leninista, … nella…sua rottura rispetto alla grande matrice della socialdemocrazia…l’analogo della rottura di Lutero rispetto alla Chiesa di Roma. Come Lutero si richiamava, contro il papato, al cristianesimo delle origini, così Lenin propugnava un ritorno all’originario, autentico comunismo … Assolto un suo ruolo propulsivo e innovatore, e intrecciatasi ben presto con le realtà nazionali di ciascun paese in cui aveva attecchito, la Riforma perse, man mano nel corso dei secoli, gran parte delle ragioni onde era sorta e si affermò. Ciò anche perché, a sua volta, la Chiesa aveva, sotto lo stimolo della crisi gravissima, dato avvio ad una sua riforma (che non poteva non tener conto della critica radicale, fondamento della separazione dei riformati). … oggi alcune di esse rispondono in modo positivo all’appello per un ricongiungimento ecumenico che, almeno a partire dal Concilio Vaticano II, proviene dal vertice della Chiesa cattolica.”[25]Ancora qui il tempo.  Il tempo per la ricomposizione della “famiglia socialdemocratica” sembra scaduto. L’intero movimento socialdemocratico, socialista, laburista e comunista europeo – nelle sue formazioni storicamente determinate non ha retto il confronto con le modernizzazioni del capitale. Le macchine politiche, le piattaforme politiche – le varie declinazioni del welfare – , lo stesso “mito politico” non hanno retto l’urto con la transizione dal secolo tecnologico – ingegnerizzazione della scienza – al secolo digitale della finanza globale (Le uniche formazioni ancora oggi persistenti sul panorama politico europeo, la Socialdemocrazia tedesca e i Laburisti inglesi appaiono sempre più marginali ). La Regina rossa ha scavato fossati. …..

Che fare? I Compiti per l’Oggi. E’ ancora possibile porsi questa domanda?

Abbiamo esordito affermando che non ci proponevamo una celebrazione, né una giustificazione, ma che avremmo cercato di interrogare alcuni passaggi della storia politica del novecento, seguendo il profilo della presenza dell’organizzazione comunista italiana. L’obbiettivo è in primo luogo quello di tentare un ragionamento sulle forme sociali, politiche e organizzative prodotte dall’irruzione del ‘900, che abbiamo indicato quale “Secolo Tecnologico” per la sua modalità di ingegnerizzazione della scienza al servizio della produzione di massa e costruzione delle organizzazioni complesse, ma anche un discorso sulle rispettive “Autonomie”. Il “Partito di massa” è senza dubbio il soggetto che più compiutamente incarna lo “spirito del novecento”. Il “moderno principe” è posto in essere da un “mito politico” capace di legare un complesso valoriale ad una base programmatica e da una struttura organizzativa che combina l’elemento weberiano del “professionismo politico” all’azione del proselitismo pedagogico della proiezione mitica dei valori della società futura. La nuova “Macchina politica” rispondeva alla necessità del tempo della massa e della fabbrica sia nelle liberal-democrazie, sia nei regimi totalitari. E’ stata la forma che ha garantito il mantenimento e il funzionamento degli Stati-Nazione del novecento. Lo scioglimento – ma a questo punto dovremmo dire eutanasia del PCI – perché gli organismi viventi o si trasformano per metamorfosi e|o trasfigurazione, oppure si estinguono e il PDS non si pone rispetto al PCI come il “Partito nuovo” come trasfigurazione del PCd’I. Era ancora d’impaccio “l’orizzonte del “17”, non come fedeltà di campo, l’URSS è ormai disciolta, ma come “mito politico” – in concomitanza con la dissoluzione dell’Unione Sovietica e lo spirare del “900 rimanda ai rapporti e alle autonomie tra “mito politico”, piattaforme programmatiche, macchine politiche. Abbiamo sottolineato come i partiti di massa, nel primo ventennio del ‘900 soppiantassero l’organizzazione reticolare delle clientele, dei circuiti culturali, delle reti di interesse dell’Italia pre-novecento. Oggi sarebbe utile interrogarsi sul perchè le forze politiche, non solo italiane, ma in quasi tutti i paesi europei – unica eccezione la socialdemocrazia tedesca e per alcuni versi i laburisti inglesi[26], ma ancora per quanto tempo,- somigliano più alle formazioni ottocentesche che non ai partiti del “900. Quindi il tema che dovremmo porci, non è se è possibile rinverdire programmi “paleo-socialdemocratici” ma come e con chi, e in che forma, è possibile la critica delle cose esistenti: la critica delle forme di appropriazione, distribuzione e produzione. Il Nehmen, Teilen, Weiden nell’ordine gerarchico del Nomos del secolo digitale. Vi è una forma di dissoluzione e ri-articolazione del Nomos nel tempo dell’autonomizzazione dell’Economia dalla Politica e del Cittadino dallo Stato? Come si declinano nel tempo nuovo della globalizzazione le forme appropriative, chi legittima le possibilità distributive, qual è l’autonomia delle forme della produzione e dentro queste nuove dinamiche del nomos dove e come si organizzano le nuove polarità “amico – nemico” della politica. Il tempo della globalizzazione sembra aver inaridito la forma primaria di accumulazione: la conquista della terra, anche se forme neo-imperialiste ancora sussistono e non sono affatto marginali: l’accaparramento delle “terre rare” dei materiali strategici del “secolo digitale”, ecc.; e nel suo versante criminale, la produzione e distribuzione delle droghe. Ma il surplus appropriativo dell’oggi è generato da una produzione sempre più orientata e strutturata sull’organizzazione della necessita del consumo. In altre parole, quale mito politico incarna la critica del tempo attuale e dei suoi rapporti di forza, e quale macchina politica può tradurre il nuovo mito politico in programma per l’azione.

Il mondo unificato dai processi di digitalizzazione, dall’ubiquità del tempo reale, dal cervello sociale collettivo è il tempo della rete e dei “grandi spazi”. La messa in forma dei “grandi spazi” virtuali e reali è il compito del politico. Il doppio movimento della digitalizzazione globale e dell’emergere delle strutture sovranazionali europee annuncia l’avvento graduale della post-nazionalità. La nazionalità diventa sempre più un profilo antropologico identitario e si scarica del formalismo statuale-legale che viene delegato ad ambiti più alti. La costruzione europea evoca un grande spazio ma i suoi confini non sono “santificati” da nessuna battaglia, il suo solco perimetrale non poggia su un’appropriazione originaria ma riposa in trattati, il politico sarà capace di superare i confini interni per affermare un nuovo nomos.


[1] Benjamin: Tesi sulla storia

[2] Già nel 1921, al teatro Goldoni “i giornalisti potranno contare su sei cabine telefoniche” e il Governo predisponeva il suo piano spionaggio attraverso le intercettazioni “Un telegramma cifrato del prefetto di Livorno … informò … il ministro degli Interni: Pregio far conoscere che è giunto in questa città l’Ispettore incaricato di disporre un apparecchio per l’audizione delle conversazioni telefoniche durante il prossimo congresso socialista stop” in Ezio Mauro, La Dannazione. 1921. La sinistra divisa all’alba del fascismo.

[3] M Flores, G. Gozzini: Il Vento della Rivoluzione. La nascita del partito comunista italiano; Laterza, pag. XVI

[4] P. Spriano: Storia del Partito Comunista Italiano, ed. Einaudi, pag. 133

[5] WWW:. \lavocedellelotte.it

[6] Paolo Spriano: op cit; pag 147

[7] Paolo Spriano: op cit; pag 150

[8] Paolo Spriano: op cit; pag 291

[9] Paolo Spriano: op cit; pag 292

[10] Rivista storica del socialismo, anno VI, fasc. 18, gennaio-aprile 1963, pp. 115-16 ( lettera, sequestrata dalla polizia, rinvenuta e pubblicata da Stefano Merli

[11] 2000 pagine di Gramsci, vol II p. 50 lettera a Julca Schucht, roma 21 luglio 1924

[12] Piero Fassino: Dalla Rivoluzione alla Democrazia; Donzelli Editore, 2021, p.45

[13] Antonio Gramsci: Quaderni dal Carcere, vol. III p. 1555 – 1652

[14] Luciano Canfora: La Metamorfosi, Laterza, 2021, p. 5-6

[15] Umberto Ranieri: Eravamo Comunisti, Rubbettino, 2021, Biagio de Giovanni, p. 93

[16] Winston Churchill: Discorso tenuto al Westminster College di Fulton, Missouri, 5 marzo 1946

[17] M.Flores, G. Gozzini, op.cit. p.161

[18] B. de Giovanni, in U. Ranieri: eravamo Comunisti: p. 92/93

[19] B. de Giovanni, op. cit. p 92

[20] A. Gramsci, Quaderni dal Carcere, quaderno 22 (V) p.2139/2181

[21] B. de Giovanni, op.cit. p. 92

[22] Lewis Caroll: Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò. “Ora, in questo luogo, come puoi vedere, ci vuole tutta la velocità di cui si dispone se si vuole rimanere nello stesso posto; se si vuole andare da qualche altra parte, si deve correre almeno due volte più veloce di così”

[23] P. Fassino, op cit. pag. 234/40

[24] Il termine trasfigurazione non va inteso solo nel senso di cambiamento di forma o di figura ma anche di svelamento della sua intima realtà, anche se rivelata ai pochi.

[25] L. Canfora, op. cit. pag 84/85

[26] Per il Partito laburista inglese sarebbe utile una riflessione su quanto incide la forma della competizione elettorale a determinare la presenza dei soggetti politici più delle rispettive piattaforme programmatiche.

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